Il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto in part time non rappresenta, di per sé, un giustificato motivo di licenziamento, ma non preclude in modo assoluto la facoltà del datore di lavoro di recedere comunque dal rapporto nel caso in cui risulti impossibile, dal punto di vista economico e organizzativo, mantenere la prestazione lavorativa del dipendente a tempo pieno, con relativo onere della prova a carico datoriale. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 12244 depositata il 9 maggio 2023, che ha così affrontato il particolare tema del licenziamento per soppressione del posto di lavoro in caso di rifiuto del lavoratore rispetto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale. I giudici di legittimità, nel rendere la propria motivazione, sono partiti dal comma 1 dell’art. 8 del DLgs. 81/2015, secondo cui “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. Considerata la suddetta norma, la Suprema Corte ha affermato che il rifiuto del lavoratore in questo senso non può, tuttavia, precludere a priori l’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando sussistano le ragioni indicate all’art. 3 della L. 604/66 inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa tali da legittimarlo, e il datore riesca a dimostrarne la sussistenza. Quindi il citato art. 8 comma 1 comporta, sostanzialmente, una rimodulazione dell’onere probatorio posto a carico del datore di lavoro. In particolare, in questi casi, il datore di lavoro deve infatti dimostrare la sussistenza di effettive ragioni economico-organizzative tali da non consentire di mantenere la prestazione del dipendente a tempo pieno ma unicamente a tempo parziale, che la proposta di trasformare il rapporto di lavoro a tempo parziale sia stata rifiutata dal lavoratore (o dai lavoratori) e, infine, che tra l’esigenza di ridurre l’orario di lavoro e il successivo licenziamento esista un nesso di causalità. Tale orientamento era già stato espresso in passato dalla Cassazione (cfr. Cass. n. 21875/2015), anche alla luce della direttiva 97/81/Ce del 15 dicembre 1997, la quale, pur tutelando il lavoratore dalla trasformazione del rapporto di lavoro su iniziativa unilaterale del datore di lavoro, tiene in ogni caso in considerazione le esigenze organizzative aziendali. La clausola 5.2. di tale direttiva dispone infatti che “Il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”. Nel caso di specie il licenziamento intimato alla lavoratrice che aveva rifiutato la trasformazione del rapporto a tempo parziale era stato ritenuto illegittimo dalla Corte d’Appello, ma non perché intimato in ragione del predetto rifiuto. I giudici di secondo grado hanno infatti chiarito che l’illegittimità del recesso derivava dal fatto che il datore di lavoro non aveva adeguatamente provato le ragioni addotte a giustificazione del licenziamento, quindi le ragioni economiche che imponevano di mantenere il posto di lavoro della lavoratrice unicamente a tempo parziale. Si segnala, infine, che con la sentenza in commento è stata confermata l’esclusione, già accertata nel secondo grado di giudizio, della natura ritorsiva del licenziamento intimato alla lavoratrice in quanto non sorretto da un motivo ritorsivo unico e determinante. A tal proposito i giudici di legittimità, pur trattandosi di una questione di fatto devoluta all’apprezzamento dei giudici di merito, hanno sottolineato che il rifiuto di trasformare il rapporto di lavoro in part time può costituire una forma di ritorsione ma che, tuttavia, per dichiarare il licenziamento nullo perché ritorsivo occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche in relazione ad altri e ulteriori fatti rilevanti ai fini della integrazione degli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con onere probatorio in capo al lavoratore.