La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 23515 depositata il 30 maggio 2023, ha stabilito che la consapevolezza del contribuente in ordine all’errore contenuto nella fattura o nella nota di credito non lo legittima a replicare tale errore nella dichiarazione ai fini IVA se tale errore incide sulla corrispondenza al vero dell’entità degli elementi attivi o passivi dichiarati; la dichiarazione, infatti, è atto proprio del contribuente che la sottoscrive, sicché egli non può lucrare sull’errore altrui di cui sia consapevole per dichiarare (altrettanto consapevolmente) il falso. IL FATTO Il fatto di causa concerne una srl che nel 2014 emetteva una nota di credito nei confronti di un’altra srl, nella quale veniva riportata la causale “sconti di fine anno 2013”. La somma veniva ritenuta non rilevante ai fini IVA. Detta nota faceva séguito ad altre, emesse l’anno precedente – anch’esse considerate non soggette all’applicazione dell’imposta – a titolo di “accredito sconto fine anno”. Risultava, nondimeno, che la prima avesse erogato, a favore della seconda, somme di denaro coincidenti con gli importi indicati nelle note di credito. In base a quanto poteva evincersi dalla corrispondenza intercorsa fra le parti, una frazione di tali somme era versata a titolo di corrispettivo per lo svolgimento di attività promozionali e di marketing. Secondo l’Amministrazione finanziaria, quindi, tale quota non poteva essere considerata irrilevante ai fini dell’IVA, atteso che si trattava di importi versati a fronte di obbligazioni di fare. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE A fronte di ciò, la Cassazione osserva, da un punto di vista generale, che colui che riceve e contabilizza la nota di credito non può ipotizzare possibili spiegazioni alternative della causa di emissione del titolo che non solo non abbiano riscontro nella contabilità di impresa ma che, addirittura, siano dalla stessa smentite; la spiegazione di un’operazione commerciale posta in essere da una società di capitali (a maggior ragione nel caso di operazioni rientranti in rapporti consolidati) deve poter trovare un preciso riscontro nella contabilità della società stessa e non in astratte e ipotetiche spiegazioni della causa dell’operazione stessa. Il punto fondamentale della vicenda, allora, non è la mancata correzione della nota di credito, ma la consapevole indicazione, nella dichiarazione ai fini IVA, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, quale condotta integrante la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000. Ai fini della consumazione di tale reato, infatti, è necessaria e sufficiente la consapevolezza della inferiorità degli elementi attivi dichiarati rispetto a quelli effettivi. L’addebito, dunque, non consiste nella violazione del dovere di correggere una fattura o una nota di credito errata, bensì nella violazione del dovere di dichiarare gli elementi attivi (e passivi) in maniera corrispondente al vero. Rispetto a ciò non è considerata “pertinente” la dedotta giurisprudenza civile (cfr., tra le altre, Cass. n. 7681/2003), secondo la quale, in tema di IVA, vi sarebbe un obbligo di supplire alle mancanze commesse dall’emittente in ordine all’identificazione dell’atto negoziale e alla notizia dei dati di fatto fiscalmente rilevanti, non anche quello di controllare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente medesimo, quando, in fattura recante l’annotazione degli estremi, inserisca l’esplicita dichiarazione di non debenza dell’imposta (ex art. 21 comma 6 del DPR 633/72), indipendentemente dalla questione della tassabilità o meno dell’operazione. La Suprema Corte osserva, infatti, come anche nel contesto dei reati tributari il precetto penale presenti natura costitutiva e non sanzionatoria. Rispetto a essi, di conseguenza, l’errore di fatto rilevante è solo quello disciplinato dall’art. 47 c.p. e deve cadere su uno qualsiasi degli elementi della fattispecie. Sicché, l’errore contenuto nell’atto da altri formato e annotato nella contabilità del dichiarante non esclude il dolo (di evasione) se il contribuente ne è consapevole e, ciononostante, dichiari elementi attivi (e/o passivi) non corrispondenti al vero. Nel caso di specie, peraltro, emergeva chiaramente come l’operazione in questione avesse consentito alla società (all’epoca rappresentata dall’imputato) di beneficiare di un credito di imposta che, altrimenti, sarebbe stato azzerato dalla corretta dichiarazione degli elementi attivi. La società, quindi, non solo non pagava l’IVA che avrebbe dovuto, ma lucrava altresì sul credito di imposta rimasto inalterato. Si tratta – conclude la Cassazione – di circostanze che, a livello penalistico, sono anche idonee a ritenere provato il dolo. Anche perché rispetto a esse non è possibile invocare un incolpevole “affidamento” ad altri della tenuta della contabilità, della redazione dei bilanci, della dichiarazione fiscale, nonché dell’interpretazione delle norme fiscali. La norma penale, infatti, non ammette trasferimenti di responsabilità che sono proprie del destinatario del precetto; ciò senza che possano venire in rilievo le dimensioni dell’impresa, “dovendo il destinatario del precetto adeguarsi al comando e non il comando adeguarsi al suo destinatario”.