La lettera con cui il committente comunica al lavoratore la data di cessazione dell’incarico senza necessità di ulteriore disdetta costituisce un provvedimento con valore di intimazione del licenziamento ai sensi dell’art. 2 comma 1 della L. 604/1966, secondo cui il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18254 del 27 giugno 2023, ha infatti chiarito che, a prescindere dalla natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro, il recesso del datore (o del committente) per scadenza del termine apposto al contratto non può essere qualificato come licenziamento orale quando la volontà di recedere sia espressa in forma scritta in modo non equivoco e risulti collocata in modo preciso dal punto di vista temporale. IL FATTO Il caso di specie ha interessato un lavoratore con mansioni di liquidatore sinistri che aveva svolto l’attività in favore di una compagnia assicurativa in forza di una serie di contratti di collaborazione coordinata e continuativa sin dal 19 luglio 1999. Il rapporto si era poi concluso a seguito della decisione della committente che, con una lettera, aveva comunicato al lavoratore la proroga dell’incarico sino al 31 dicembre 2003, precisando che da tale data l’incarico sarebbe cessato senza obbligo di ulteriore disdetta. Al suddetto rapporto i giudici di merito, su domanda del lavoratore, avevano riconosciuto la natura subordinata, ravvisando la sussistenza dei relativi indici essenziali, tra cui la soggezione al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro (c.d. “eterodirezione”) come ogni altro liquidatore dipendente, e secondari, come l’osservanza di un orario di lavoro fisso e il pagamento della retribuzione prestabilita a cadenze periodiche, la quale non era collegata ai risultati raggiunti. Era inoltre stato ritenuto che il licenziamento del lavoratore fosse stato intimato in forma orale, con conseguente ordine alla committente di ripristino del rapporto di lavoro e condanna al pagamento del risarcimento del danno. Nello specifico la Corte d’Appello aveva escluso che la comunicazione della proroga e della cessazione del rapporto di collaborazione a partire dalla fine del 2003 senza ulteriore disdetta potesse qualificarsi come una lettera di licenziamento, in quanto, per i giudici, non vi erano elementi per escludere che il rapporto potesse ancora proseguire come in precedenza sulla base di un’unilaterale e implicita aspettativa di possibile ulteriore proroga. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Di diverso avviso sono stati i giudici di legittimità, i quali, con la sentenza in commento, hanno rilevato che la lettera con cui la committente aveva comunicato per iscritto al collaboratore la proroga dell’incarico sino a una certa data, a decorrere dalla quale l’incarico stesso sarebbe scaduto senza ulteriore disdetta, rappresentava a tutti gli effetti una lettera di licenziamento poiché in essa la volontà di recedere dal rapporto a partire da una data certa risultava essere espressa in modo chiaro, certo e semanticamente non equivocabile, non richiedendo, pertanto, ulteriori comunicazioni. Tale principio, relativo alle caratteristiche di legittimità del provvedimento di licenziamento, ha evidenziato la Corte di Cassazione, vale sia per i rapporti di lavoro subordinato, sia per i rapporti di lavoro autonomo; ne deriva che anche qualora, nella fattispecie in esame, non fosse stata accertata la sussistenza della subordinazione, la decisione non sarebbe cambiata. Si precisa, infine, che nel caso in esame il recesso non è stato ante tempus, essendo stato il rapporto prorogato a una certa data, da cui l’incarico non sarebbe più stato in essere. Diversamente, considerato che nei rapporti di lavoro a termine le parti possono recedere prima della scadenza solo ove sussista una giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., quindi solo in presenza di un fatto talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro, il recesso anticipato e ingiustificato del datore di lavoro avrebbe comportato il diritto del lavoratore a domandare il risarcimento del danno, quantificabile con le mensilità che il lavoratore medesimo avrebbe percepito sino al termine del rapporto (cfr. Trib. Roma 28 settembre 2020 n. 4817).