Il certificato di origine rilasciato dalle autorità doganali estere rappresenta un elemento di prova a favore dell'importatore, che deve essere considerato sullo stesso piano del report stilato dall'Olaf, l'organismo che svolge funzioni di indagine a tutela degli interessi finanziari europei. In presenza di un'attestazione dell'origine della merce rilasciata dalle autorità doganali filippine e successivamente confermata, l'Agenzia delle dogane non può contestare l'insufficienza della lavorazione effettuata nelle Filippine soltanto sulla base di un'indagine Olaf, se questa non è stata in grado di approdare a elementi di prova in grado di invalidare il certificato. A chiarirlo è la Corte di Cassazione con l'ordinanza 23 giugno 2023, n. 18124, che riequilibra, a favore degli importatori, il peso delle parti in sede processuale, mettendo in luce il valore probatorio delle certificazioni rilasciate dalle autorità pubbliche dello Stato ove è avvenuta l'ultima lavorazione, idonea al radicamento dell'origine doganale del prodotto. IL FATTO Nella vicenda esaminata dalla Suprema Corte una Società aveva acquistato alcuni elementi di fissaggio dichiarando l'origine preferenziale “Filippine”. Nonostante la presenza di un certificato regolarmente rilasciato dalle autorità estere, la Dogana italiana aveva sollevato il dubbio che la merce avesse origine Taiwan. La contestazione dell'Agenzia si fondava su un Report dell'Olaf che, ad avviso dei giudici di merito, non forniva sufficienti elementi di prova in relazione alle operazioni oggetto di rettifica. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha chiarito che il report Olaf deve essere valutato dal giudice al pari di tutti gli altri elementi di prova prodotti in giudizio dall'importatore. In particolare, dal punto di vista probatorio, assume un ruolo fondamentale il certificato di origine preferenziale Form A. Tale documento, rilasciato dalle autorità competenti del Paese terzo da cui provengono i prodotti, attesta l'origine doganale della merce, ai fini del riconoscimento del regime agevolato all'importazione nell'Unione europea. Nei casi in cui il fornitore abbia regolarmente richiesto, dando piena garanzia dell'origine della merce da esportare, e ottenuto, all'esito positivo delle verifiche previste dalla normativa vigente, certificati di origine della cui autenticità non si dubita, la pretesa dell'Agenzia deve ritenersi illegittima (Cassazione, 29 aprile 2020, n. 8337; Corte di Giustizia tributaria di II grado del Veneto, 23 novembre 2022, n. 1361). La pronuncia si inserisce su un tema di particolare attualità, dato che sempre più frequenti sono gli accertamenti motivati dall'origine dei prodotti, la quale riveste fondamentale importanza per la fiscalità doganale. L'indicazione di un'origine errata espone le aziende a gravi responsabilità di tipo economico e può dar luogo a contestazioni, di natura penale, di contrabbando aggravato. I casi più recenti riguardano diverse indagini internazionali su tubi, e bike e monopattini. Va ricordato che, sulle aziende che scelgono un produttore estero, gravano una serie di responsabilità, inerenti la selezione del fornitore e una due diligence sulla correttezza dell'origine doganale da questi dichiarata. Il certificato di origine rilasciato dalle autorità del Paese del fornitore assolve alla prova dell'origine del bene; sono inoltre utili, per corroborare tale fondamentale qualità del prodotto, anche le certificazioni rilasciate da enti internazionalmente riconosciuti, che hanno svolto analisi e valutazioni sul processo produttivo, così come visite in loco e riscontri concreti da parte dell'importatore.