In tema di sequestro diretto finalizzato alla “confisca allargata”, la presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale non opera nei confronti del terzo (art. 240-bis c.p.). Così la sentenza n. 36036, depositata il 29 agosto 2023 dalla Cassazione, annulla un provvedimento di sequestro di beni immobili e di quote societarie riconducibili al patrimonio illecitamente acquisito dal suocero della proprietaria di tali beni. I giudici di legittimità tornano così su alcuni principi in questa materia, precisando che, ove sia disposto un sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240-bis c.p. su beni di un terzo, che si assumono essere di proprietà dell’indagato, l’accusa è gravata da un duplice onere probatorio. Da un lato, deve essere provato che quel bene appartiene di fatto all’indagato in quanto l’intestazione a favore di un terzo è fittizia. Ad esempio, la giurisprudenza ha chiarito che “in questo caso, prima ancora che investigare sull’accumulazione illecita, s’impone in via pregiudiziale l’accertamento dell’effettiva interposizione fittizia tra terzo ed imputato, da condurre su impulso dell’accusa, che è gravata del relativo onere, sulla scorta dei dati fattuali disponibili, ossia dei rapporti personali, di coniugio, parentela, amicizia tra costoro, delle situazioni patrimoniali e reddituali, delle attività svolte, insomma mediante l’utilizzo anche di elementi indiziari, purché connotati dai requisiti di pluralità, gravità, precisione e concordanza, stabiliti dall’art. 192 c.p.p. comma 2 in modo da dimostrare la discrasia esistente tra formale titolarità e reale appartenenza dei beni” (Cass. n. 44534/2012). In secondo luogo, deve essere provata l’esistenza di una sproporzione fra il reddito dichiarato o i proventi dell’attività economica del soggetto interessato e il valore economico di beni e la mancanza di una giustificazione credibile circa la loro provenienza. In particolare, ai fini della “sproporzione”, il giudizio deve essere temporalmente contestualizzato, nel senso che i proventi di cui il sequestrato aveva disponibilità vanno tenuti in conto nella misura attuale al momento in cui ha acquistato i singoli beni. Una volta provate dette circostanze scatta una presunzione (“iuris tantum”) di illiceità dei beni appartenenti all’indagato, sicché, salvo prova contraria – derivante dall’inversione dell’onere probatorio – deve ritenersi ingiustificato un acquisto effettuato in un tempo in cui l’indagato (o il condannato) non aveva adeguate disponibilità economiche. In conclusione, viene ribadito che, relativamente alle ipotesi delle confische allargate – già previste dall’art. 12-sexies del DL 306/1992, poi confluite nell’art. 240-bis c.p. – è stabilito un sistema probatorio, a carico della pubblica accusa, fondato su una duplice presunzione “iuris tantum”, che, ove provata, è sufficiente a far scattare la confisca a carico dell’indagato, salvo prova contraria derivante dall’inversione dell’onere probatorio. Il suddetto meccanismo di presunzione, non è, invece, previsto in alcuna norma, per l’azione proposta nei confronti del terzo relativamente a queste ipotesi di confisca, contrariamente a quanto previsto nel diverso processo di prevenzione ora disciplinato nel c.d. Codice antimafia (DLgs. 159/2011). Sicché la pubblica accusa che voglia provare che il bene intestato al terzo appartiene, di fatto, all’indagato, è gravata del normale onere probatorio che può fondarsi anche su presunzioni semplici che, però, possono assumere dignità di prova solo ove siano plurime, gravi, precise e concordanti; cioè tali da consentire di risalire da un fatto noto (intestazione ad un terzo di un bene) ad uno ignoto (il bene, nonostante appartenga formalmente ad un terzo, è di fatto nella disponibilità giuridica dell’ indagato). Anche recentemente la Cassazione ha ribadito che la presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, prevista nella speciale ipotesi di confisca di cui all’art. 12-sexies del DL 306/1992 (oggi art. 240-bis c.p.) non opera nel caso in cui il cespite sequestrato sia formalmente intestato ad un terzo che si assume fittizio interposto della persona condannata per uno dei reati indicati nella disposizione menzionata, incombendo, in tal caso, sull’accusa l’onere di dimostrare la fittizietà dell’intestazione dei beni al terzo ricorrente e la sproporzione dei beni a lui intestati rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica esercitata dallo stesso, da valutarsi con riferimento al momento dei singoli acquisti e al valore dei beni di volta in volta acquisiti, non già a quello dell’applicazione della misura (Cass. n. 53449/2018). È vero di contro che la sproporzione tra redditi e patrimonio costituisce uno degli elementi indiziari che può giustificare la misura cautelare reale.