Tra i fondamentali requisiti di una contestazione disciplinare vi è quello della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione, da cui discende il divieto, in capo al datore di lavoro, di intimare un licenziamento sulla base di circostanze ulteriori - e diverse - rispetto a quelle cristallizzate nella lettera di contestazione, e ciò in ragione dell’esigenza di tutela del diritto di difesa del lavoratore. Sul tema si è espressa la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 26042 del 7 settembre 2023. IL FATTO Un lavoratore era stato licenziato per avere compilato con dati falsi due Documenti di Accompagnamento Semplificato (DAS), così consentendo la sottrazione di circa 1.300 litri di carburante, in concorso con altre persone, condotta emersa a seguito di accertamenti della Guardia di Finanza e susseguente procedimento penale, anche a carico del dipendente licenziato. Nel successivo processo penale - in cui la società si era anche costituita parte civile - il suddetto dipendente era stato assolto dai reati ascrittigli per non aver commesso il fatto. La condotta contestata in sede disciplinare era ricompresa in quella di furto ascritta al lavoratore, reato, nel senso di frazione dell'articolata fattispecie concorsuale descritta nel capo di imputazione, per il quale il lavoratore era stato assolto in mancanza di prova di un suo accordo con i concorrenti. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Quanto alla rilevanza delle sentenze penali nel procedimento disciplinare, gli Ermellini richiamano il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità; il giudicato di assoluzione non determina l'automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare (cfr. Cass. n. 398/2023, n. 11948/2019, n. 14344/2015, n. 12134/2005). Nondimeno, in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, il giudice adito per la dichiarazione di illegittimità di un licenziamento disciplinare irrogato in conseguenza di un comportamento per il quale è stato sottoposto a procedimento penale non può - in considerazione dell'identità del fatto materiale, rispettivamente vagliato in sede penale come reato e in sede civile come condotta che ha determinato il licenziamento - considerare ininfluente la sentenza dibattimentale penale di assoluzione conclusiva del suindicato procedimento penale divenuta cosa giudicata (e le prove ritualmente raccolte in sede penale), ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento (cfr. Cass. n. 15353/2012). Come chiarito nella pronuncia di legittimità ora citata (v. § 7 della motivazione e giurisprudenza ivi richiamata), nell'interpretazione in generale della disciplina dei rapporti tra giudizio penale e civile quale risulta dal codice di procedura penale, nella giurisprudenza di legittimità si sono consolidati i seguenti principi: a) ai sensi dell'art. 652 c.p.p. (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili), il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato, e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.; b) nei confronti dell'imputato, la sentenza irrevocabile di assoluzione, pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile nel quale si controverta intorno ad un diritto il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, mentre resta impregiudicata la qualificazione giuridica dei fatti medesimi; c) il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine, egli non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza; d) peraltro, anche ove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extra-penale, il giudice civile, nella doverosa completa e autonoma rivalutazione del fatto, deve tenere conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale; e) la sentenza penale, ancorché non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, ed attribuendo perciò al giudice civile il potere-dovere di accertarli e valutarli in via autonoma, costituisce in ogni caso una fonte di prova che il predetto giudice è tenuto ad esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge. Nel caso di specie, la sentenza penale di assoluzione del lavoratore, valorizzata dal Tribunale del lavoro e non riformata sul punto dalla Corte d'Appello, contiene un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza della partecipazione del lavoratore al fatto di reato concorsuale ascrittogli; del tutto logicamente, pertanto, l'assoluzione per non aver commesso il fatto, pronunciata (non in esito a dibattimento, ma comunque) in seguito a giudizio di pieno accertamento dei fatti e delle rispettive responsabilità, anche con la partecipazione quale parte civile del datore di lavoro, fonda l'accertamento del giudice del lavoro in ordine all'insussistenza dell'addebito disciplinare a base del licenziamento ed il conseguente annullamento dello stesso. Del resto, ancora di recente (Cass. n. 9507/2023) è stato ribadito che, nel vigente ordinamento processuale, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico - riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità; non vi è dubbio che la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, anche in esito a giudizio abbreviato, è qualificabile come prova atipica dell'insussistenza dell'addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale, la cui rivalutazione in fatto è preclusa in sede di legittimità. Ne consegue l'illegittimità del licenziamento intimato.