Il giudice del lavoro, se ravvede una retribuzione eccessivamente bassa, anche se prevista dal Ccnl, può intervenire e adeguare la somma percepita alle esigenze primarie del prestatore. Non è possibile - precisa la Cassazione (sentenza n. 28320 del 10 ottobre 2023) - pagare 5,49 euro l’ora a chi svolge (peraltro) lavoro notturno perché si tratta di una somma ai limiti della soglia di povertà. Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva usato una serie di ulteriori parametri - le relazioni annuali ISTAT sulla povertà e i contratti collettivi relativi a settori analoghi o affini - dai quali era emersa in modo manifesto la violazione del precetto costituzionale di cui all'art. 36. Orbene, gli Ermellini precisano come la verifica giudiziale si imponga proprio qualora - come nel caso in esame - risulti che il trattamento economico previsto dalle parti sociali sia appena di qualche euro sopra la soglia di povertà accertata da un ente pubblico non economico come l'ISTAT. Tale potere di accertamento giudiziale è stato affermato dalla Suprema Corte anche con riguardo al contratto collettivo (Cass. n. 2245/2006). Nell'ambito di tale accertamento va tenuto conto del fatto che il valore soglia di povertà assoluta viene calcolato ogni anno dall'ISTAT relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia. Invece i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più, che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: "oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali"). Pertanto, nell'ambito dell'operazione di raffronto tra il salario di fatto e salario costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità. A tal fine non potrà perciò assumere a riferimento la retribuzione lorda (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l'indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali). Il livello ISTAT di povertà non costituisce peraltro un parametro diretto di determinazione della retribuzione sufficiente; può però aiutare ad individuare, sotto il profilo della sufficienza, una soglia minima invalicabile. Ma di per sé non è indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo inoltre rispettare l'altro profilo della proporzionalità con la quantità e qualità del lavoro svolto. Secondo quanto affermato dalla Suprema Corte (Cass. n. 24449/2016) l'art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata»; quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa». In altre parole, l'uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l'altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto». Il giudice, pertanto, non può sottrarsi ad alcuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici per determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione. In nessun caso la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, anche attraverso la considerazione del livello ISTAT di povertà assoluta, può esaurire l'oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell'art. 36 Cost. Essa deve condurre sempre alla determinazione del quantum del salario costituzionale (pars costruens), operazione che l'univoca giurisprudenza di legittimità e lo stesso ordinamento (in alcune disposizioni di legge) vuole improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva (v. Cass.17/05/2003 n. 7752, Cass. 08/01/2002 n. 132, Cass. 09/03/2005 n. 5139, Cass. 01/02/2006 n. 2245), ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità. Ma è pur sempre fatto salvo, oltre ad eventuali disposizioni di legge, l'intervento correttivo del giudice sulla stessa contrattazione collettiva a tutela della precettività dell'art. 36 Cost. Quanto ai poteri demandati al giudice nella materia, in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai requisiti indicati dall'art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all'art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l'entità della retribuzione, e non anche l'insufficienza o la non proporzionalità, che rappresentano l'oggetto dell'accertamento giudiziale. Al lavoratore spetta soltanto l'onere di dimostrare l'oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l'allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002). Anche quando chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali, il lavoratore è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto, dovendo in mancanza presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista - in relazione alle mansioni esercitate - dal contratto collettivo del settore (Cass. n. 11881/1990, Cass. n. 163/1986, Cass. n. 4096/1986, Cass. n. 7563/1987). Inoltre, la violazione dell'art. 36 Cost. è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo, potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore presenti caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non può escludersi che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979; sul punto già Cass. n.1255/1976 e Cass. n. 2380/1972). Il compito del giudice non subisce alterazione, rispetto al principio dispositivo della domanda, neanche quando il lavoratore - che deduca l'insufficienza del salario percepito, descriva il lavoro svolto e produca in giudizio le buste paga - si limiti ad indicare come termine di raffronto quello tra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale, atteso che tale indicazione non modifica la natura della domanda svolta in giudizio, né l'interesse di cui si chiede protezione, l'identificazione dei quali non richiede "formule sacramentali".