Stop alla condanna per omessa dichiarazione Iva inflitta, a conti fatti, sulla sola base del Pvc della Guardia di finanza. E ciò perché bisogna sempre dimostrare che l'imposta (eventualmente) evasa supera la soglia di punibilità. Un conto è l'accertamento fiscale, un altro il reato tributario: il giudice penale non può ricorrere alle presunzioni tributarie semplici utilizzate dal fisco perché invertono l'onere della prova a carico del contribuente e dunque «sovvertono alla radice» il principio costituzionale della presunzione d'innocenza. E può sì utilizzare il Pvc della Finanza e le giustificazioni del contribuente per ricostruire i fatti, ma solo se gli atti sono redatti prima che emergano dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato. Così la Corte di Cassazione nella sentenza n. 44170 pubblicata il 3 novembre 2023 dalla terza sezione penale. Il ricorso dell'imputato è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale, che chiedeva l'inammissibilità. I giudici del merito stabiliscono che è superata la soglia dei 50 mila euro senza dar conto dei criteri con cui valutano il dato probatorio: recepiscono solo il ragionamento dell'accertamento fiscale, a sua volta fondato sul Pvc della Finanza, che calcola il volume d'affari in base alle esistenze iniziali. Trova ingresso la censura della difesa secondo cui non si capisce perché, allora, non sia contestato il superamento della soglia di punibilità anche per l'anno fiscale precedente, visto che il dato contabile “incriminato” corrisponde alle relative rimanenze finali; il tutto mentre nel fascicolo di dibattimento mancano sia il Pvc sia l'avviso di accertamento, richiamati dall'informativa di reato ma non allegati: non ci sono dunque gli atti posti alla base del ragionamento induttivo divenuto accusatorio in sede penale.