Il preposto risponde dell’infortunio se omette d’interrompere l’attività lavorativa con gravi rischi. Tale qualifica può essere assunta anche di fatto, senza una formale investitura. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 46855 del 22 novembre 2023. IL FATTO L'imputato, in particolare, era stato ritenuto colpevole di avere, nella qualità di preposto, con funzioni di capocantiere, allo svolgimento di lavori di rimozione di circa 8.000 mq. di lastre di eternit poste ai copertura di capannoni industriali, cagionato la morte di un lavoratore, derivata da politraumatismo contusivo produttivo di lesioni cranio-meningo-encefaliche, fratture plurime di rachide e di bacino, sfondamento toracico e contusioni addominali, conseguenti a una caduta del lavoratore da circa 10 metri, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonchè violazione di norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro, ed in particolare degli artt. 111, 115 e 148 in relazione al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 18, comma 1, lett. f) e art. 19 in ragione della riscontrata carenza di presidi di sicurezza contro la caduta dall'alto, sia di tipo collettivo (ponteggi, reti di sicurezza, tavole) che individuali (linea vita, cinture di sicurezza). Al preposto era stato, altresì, imputato di aver fatto proseguire i lavori, nelle condizioni indicate, fino alla verificazione del sinistro, nonostante, il giorno precedente, fosse stato informato verbalmente dal responsabile per la sicurezza del cantiere della necessità di sospendere i lavori, stante l'assenza di idonee misure di sicurezza in cantiere contro la caduta dall'alto. Ad avviso del ricorrente, tuttavia, sarebbe stata del tutto erronea la motivazione con cui la Corte territoriale aveva ritenuto, in occasione del sinistro, di individuare nella sua persona la figura del preposto e del capocantiere, atteso che ciò risulterebbe contraddetto dalla propria preparazione scolastica e dal suo inquadramento all'interno della ditta. L'imputato, infatti, ha il diploma di ragioniere e perito commerciale e, all'epoca dei fatti, avrebbe svolto, a suo dire, unicamente le mansioni di tecnico commerciale, come peraltro evincibile dalla lettura della sua busta paga e del suo contratto di lavoro. L'espletamento di tali mansioni, del tutto difformi da quelle di preposto, sarebbe stato, del resto, confermato anche dalle dichiarazioni rese da parte di alcuni testi escussi, che avrebbero esplicato come la figura del capocantiere fosse solitamente individuata tra i componenti della squadra addetta al lavoro, e non certo tra i tecnici commerciali. Sotto altro profilo, quindi, il ricorrente deduceva di non aver mai sottoscritto il P.O.S., nè di aver percepito alcun compenso ulteriore per l'espletamento di tale attività, così rendendo privo di ogni rilievo tale documento, in cui il medesimo era stato indicato quale soggetto svolgente le funzioni di capocantiere. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso ribadendo come sia inammissibile in sede di legettimità riprodurre e reiterare gli stessi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione. Nel caso di specie il ricorrente si era sostanzialmente limitato ad eccepire, in maniera assertiva e poco specifica, di non aver svolto le funzioni di preposto e di capocantiere in occasione della verificazione del decesso del lavoratore, per cui, dunque, non avrebbe ricoperto alcuna posizione di garanzia idonea a legittimare l'invece intervenuto riconoscimento della sua responsabilità penale. Tuttavia - osservano gli Ermellini - era stato congruamente accertato come il ricorrente, al momento dei fatti, ricoprisse la qualifica, espressamente assegnatagli dal P.O.S., di preposto, come, altresì, confermato da vari testi escussi. L'imputato, in particolare: aveva il possesso di tutti i documenti relativi ai lavori; aveva ammesso di essere stato nominato responsabile del cantiere; disponeva di un'adeguata competenza tecnica, per aver ricevuto una formazione specifica da parte della società di cui era dipendente; era inquadrato nell'organigramma aziendale all'interno di un ufficio tecnico; era il referente diretto degli operai, al quale - per quanto da essi espressamente dichiarato - riferivano il lavoro svolto e prendevano direttive su quello da espletarsi; aveva fornito ai lavoratori la documentazione relativa al cantiere ed al piano di lavoro; era costantemente aggiornato sullo stato di avanzamento dei lavori, anche direttamente relazionandosi con il committente. La censura dedotta, quindi, ineriva ad aspetti non passibili di valutazione in sede di legittimità, essendo ben noto che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito della Corte di Cassazione non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Esula, quindi, dai poteri della Corte di legittimità la rilettura della ricostruzione storica dei fatti posti a fondamento della decisione di merito, dovendo l'illogicità del discorso giustificativo, quale vizio di legittimità denunciabile mediante ricorso per cassazione, essere di macroscopica evidenza. Sono precluse al giudice di legittimità, cioè, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. Ebbene, nel caso di specie poteva senz'altro ritenersi che la Corte territoriale, con motivazione ampiamente adeguata e logica, avesse fornito una chiara rappresentazione degli elementi di fatto considerati nella propria decisione, rispetto ai quali il ricorrente aveva solo proposto una lettura alternativa, meramente finalizzata ad ottenere un esonero da responsabilità. Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.