Nel sistema tributario italiano il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, benché non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dal solo conseguimento di meri benefici fiscali, che giustifichino l'operazione. È quanto ha stabilito, accogliendo un appello dell’amministrazione finanziaria, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana con la sentenza n. 1165 del 17 novembre 2023. IL FATTO Nel caso specifico, i giudici tributari toscani hanno ritenuto elusiva un'operazione di arbitraggio fiscale posta in essere dal contribuente mediante la quale è stato sostituito un regime naturale di tassazione - quale quello dei dividendi - con un regime alternativo più favorevole, ossia, quello della cessione di partecipazione preceduta da rivalutazione. L’Agenzia delle entrate, a seguito di una complessa attività istruttoria svolta anche in contraddittorio con il contribuente, emetteva un avviso di accertamento con il quale si recuperavano a tassazione maggiori redditi di capitali. In particolare, l’ufficio riteneva elusive due operazioni, coordinate tra loro, con le quali il contribuente cedeva una quota di partecipazione societaria dopo averla appositamente rivalutata e alienava una diversa partecipazione societaria totalitaria a una holding dallo stesso costituita. Interessata da apposito ricorso da parte del soggetto accertato, la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Arezzo riteneva economicamente valide le operazioni societarie poste in essere dal contribuente e annullava l’avviso di accertamento del Fisco. Avverso tale decisione, l’Amministrazione proponeva appello dinanzi alla competente Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana affermando come le cessioni societarie operate fossero prive di sostanza e logica economica, se valutata in funzione della finalità perseguita dal contribuente di abbandonare la compagine societaria. In particolare, secondo l’ufficio la fattispecie elusiva doveva ricondursi a un'operazione di arbitraggio fiscale attraverso la quale il contribuente ha sostituito un regime naturale di tassazione (quello dei dividendi), con un regime alternativo più favorevole (quello della cessione di partecipazione preceduta da rivalutazione), ottenendo così forti risparmi fiscali. In questa logica il contribuente avrebbe introdotto, in maniera strumentale, nell'iter negoziale, atti di cessioni di partecipazione, che non rappresentano il negozio giuridico “naturale” per soddisfare l'esigenza riorganizzativa perseguita e presentano delle evidenti anomalie rispetto a quella che sarebbe la qualificazione tipica di un atto di cessione a titolo oneroso. Il negozio giuridico più rispondente agli effetti concretamente ottenuti, ha fatto rilevare l’ufficio, sarebbe stato il conferimento e non la cessione di quote. Dunque, a giudizio del Fisco, i giudici tributari di prime cure avrebbero erroneamente annullato l’atto accertativo ritenendo, in violazione dell’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, che affinché sia configurabile una fattispecie elusiva, non è sufficiente l'assenza di valide ragioni economiche, ma occorre, altresì, che l'indebito vantaggio fiscale sia lo scopo essenziale dell'operazione. LA DECISIONE DELLA CGT II° GRADO TOSCANA Chiamati a pronunciarsi definitivamente nel merito, i giudici tributari toscani hanno accolto l’appello dell’amministrazione finanziaria, annullando la decisione di primo grado. I giudici fiorentini hanno ricordato, richiamando anche la sentenza di Cassazione n. 10981/2009, come il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con specifiche disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili, che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. L'esistenza di un principio generale antielusivo nel nostro ordinamento tributario è ricavabile nei principi costituzionali in materia tributaria, in particolare nel principio di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione di cui all’articolo 53 della Costituzione e ha portato, anche grazie all’evoluzione giurisprudenziale di tale figura, all’introduzione di una precisa diposizione normativa contenente la definizione di abuso del diritto. L’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, infatti, rubricato proprio “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, prevede espressamente, tra l’altro, che configurano abuso del diritto quelle operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi. La norma precisa, poi, che sono da considerarsi operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. La norma generale antielusiva implica, dunque, un giudizio circa la concreta esistenza di un bilanciamento tra lo scopo economico-gestionale raggiunto e il risparmio d'imposta conseguito. Nel caso in esame, i magistrati tributari di appello hanno qualificato come elusive le operazioni economiche tenute dal contribuente, con le quali è stato ottenuto un indebito risparmio d'imposta derivante dall'aver posto in essere degli atti privi di sostanza economica al solo fine di sottrarre a tassazione le plusvalenze che si sarebbero generate in capo alla società e, conseguentemente, di evitare che la società maturasse maggiori utili che al momento della distribuzione avrebbero dato origine a maggiori imposte a carico dello stesso contribuente. Infatti, hanno proseguito i giudici fiorentini, nel caso oggetto di decisione non si ravvisa una valida ragione extra fiscale che possa escludere la contestabilità dell'operazione come abusiva. Benché non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo e funzionale, è altrettanto vero, hanno spiegato i giudici, che tali ragioni sussistono solo se l'operazione non si sarebbe potuta altrimenti realizzare. Con parole chiare, la Corte tributaria di secondo grado ha precisato, quindi, che “per stabilire se l'operazione in oggetto è legittima, occorre chiedersi se il risultato giuridico-economico e fiscale ottenuto con l'operazione risulta astrattamente meritevole di tutela per l'ordinamento giuridico. Di conseguenza, affinché possa trovare applicazione l'esimente delle valide ragioni economiche, è necessario che il risultato fiscale dell'operazione non appaia abnorme rispetto a quello economico fisiologico, ove esistente. Ciò che qualifica la validità delle ragioni economiche è la loro obiettiva idoneità tale che qualsiasi operatore economico, a parità di tutte le altre circostanze, avrebbe posto in essere quella medesima operazione”. Per tutto quanto ora visto, definitivamente pronunciandosi nel merito, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana ha accolto l’appello dell’amministrazione finanziaria, annullando la decisione dei giudici di prima istanza.