In materia di parità di trattamento nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro delle persone con disabilità, l’ordinamento ha introdotto varie misure volte a promuovere l’inserimento nel mondo del lavoro, l’integrazione lavorativa e la conservazione del posto di lavoro delle persone disabili. Tra queste, l’art. 10 della L. 68/99 prevede, ad es., limiti stringenti alle ipotesi di licenziamento di tali soggetti (licenziamenti collettivi o per giustificato motivo oggettivo), con una tutela rafforzata nel caso del lavoratore disabile obbligatoriamente avviato che risulti affetto da inidoneità sopravvenuta alla mansione, per aggravamento della situazione di handicap, dovendosi verificare se lo stesso possa continuare a essere impiegato presso l’azienda. Sul punto, deve farsi riferimento anche alla normativa comunitaria, in particolare al dibattuto art. 5 della direttiva 2000/78/Ce, che richiede l’adozione di “soluzioni ragionevoli” per garantire il rispetto del principio di parità di trattamento dei disabili e il relativo inserimento sociale e professionale. Infatti, si registra un contrasto giurisprudenziale sull’interpretazione di tale disposizione: da un lato, vi è un orientamento che riconosce al datore di lavoro ampio margine nella riorganizzazione aziendale per la tutela del posto di lavoro del soggetto disabile (Cass. n. 27243/2018); un altro che, invece, aderisce rigorosamente ai principi comunitari limitando i poteri datoriali (Cass. n. 6798/2018). Al riguardo, la Corte di Giustizia Ue, con la sentenza resa nella causa C-631/22, pubblicata il 18 gennaio 2024, ha dato un’interessante interpretazione all’art. 5 della direttiva 2000/78/Ce su una domanda di rinvio pregiudiziale. Detta domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia, pendente avanti la Corte di Giustizia delle isole Baleari, riguardante la risoluzione del contratto di lavoro di un dipendente a fronte della sopravvenuta inidoneità permanente totale del medesimo a esercitare la sua professione abituale, ossia quella di conducente di automezzi per la raccolta dei rifiuti domestici, successivamente a una temporanea inabilità al lavoro per infortunio sul lavoro (frattura aperta del calcagno destro). Le questioni pregiudiziali sottoposte al giudice europeo riguardavano la compatibilità della normativa spagnola con l’art. 5 della direttiva 2000/78/Ce. In sostanza, il giudice interno si domandava se la predetta disposizione andasse interpretata nel senso che la stessa osti all’applicazione di una norma nazionale che preveda come causa automatica di cessazione del contratto di lavoro la disabilità del lavoratore (ove sia dichiarata la sua condizione di inidoneità permanente e totale ai fini dello svolgimento della professione abituale, senza prospettive di miglioramento, e sia riconosciuto al lavoratore il diritto a beneficiare di una prestazione previdenziale, come nel caso di specie), senza che l’impresa abbia preventivamente adempiuto l’obbligo di adottare “soluzioni ragionevoli” ex art. 5 della predetta direttiva per preservare l’occupazione. La Corte Ue, richiamando un proprio precedente (C-485/20), ha affermato che, ai sensi del citato art. 5, il datore di lavoro deve adottare i provvedimenti appropriati, tenendo conto di ogni situazione individuale, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di ricevere una promozione o una formazione, purché al datore non sia richiesto un onere sproporzionato. Tra i provvedimenti appropriati, viene ricordata la riassegnazione del lavoratore, divenuto inidoneo alle funzioni essenziali del posto di lavoro da lui occupato per sopravvenuto handicap, ad un altro posto di lavoro, per cui abbia le competenze, le capacità e le disponibilità richieste, consentendo la conservazione dell’occupazione del dipendente. Tuttavia, occorre stabilire se tali misure diano luogo a oneri sproporzionati per il datore di lavoro, considerando i costi finanziari che tali provvedimenti comportano, le dimensioni aziendali, le risorse a disposizione e la possibilità di ottenere sovvenzioni. Ciò posto, la Corte Ue – riconoscendo la sussistenza di un contrasto tra la normativa nazionale e l’art. 5 dalla direttiva 2000/78, volto a garantire il diritto al lavoro anche a chi ha acquisito una disabilità durante l’impiego – ha affermato che detta disposizione, letta alla luce degli artt. 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali Ue e degli artt. 2 e 27 della Convenzione ONU sui diritti con le persone con disabilità, va interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale a fronte della quale il datore di lavoro può porre fine al contratto di lavoro in ragione dell’inidoneità permanente del lavoratore per sopravvenuta disabilità, nel corso del rapporto di lavoro, senza che il datore di lavoro debba prima prevedere o mantenere soluzioni ragionevoli per consentire la conservazione del posto di lavoro del lavoratore, né dimostrare, eventualmente, che tali soluzioni costituirebbero un onere sproporzionato.