Il datore di lavoro che consente condotte mobbizzanti o comunque vessatorie (ad esempio, lo straining) nei propri uffici o non si attiva al fine di evitarle risponde dei danni non patrimoniali subiti dal lavoratore per le condotte illecite agite da superiori o da altri colleghi della vittima. Ma, soprattutto, afferma l'ordinanza n. 3822/2024 della Cassazione civile, il giudice non può escludere il fatto illecito per il danno alla salute dovuto alla mancata tutela dei lavoratori sul luogo di lavoro senza alcun confronto puntuale con i risultati della Ctu. In particolare - ricordano gli Ermellini - nell'accertamento del mobbing, «l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto ...; a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata» (Cass. n. 26684/2017). In altri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l'intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell'elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all'isolamento del lavoratore. Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico-legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018). Come la Suprema Corte ha già avuto modo di statuire, non rientrano tra le nozioni di fatto di comune esperienza «quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l'assenza di un'acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi» (Cass. n. 15159/2019). Il giudice del merito può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall'esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche. Anche nel caso in cui dovesse essere confermata l'assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente. Infatti, «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ..., lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ.» (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016). Inoltre, «non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni 'stressogene' che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio» (Cass. n. 18164/2018, che cita a sua volta Cass. nn. 3291/2016 e 7844/2018). Ne consegue, in definitiva, l'enunciazione del seguente principio di diritto: «ai fini dell'accertamento dell'ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve procedere alla valutazione complessiva, e non meramente atomistica, dei fatti allegati a sostegno della domanda, al fine di verificare la sussistenza sia dell'elemento oggettivo (pluralità continuata di comportamenti dannosi), che dell'elemento soggettivo (intendimento persecutorio nei confronti della vittima); in caso di accertata insussistenza del mobbing, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un'ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; nell'apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l'ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta c.t.u. medico legale per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche».