Occorre una minuziosa ricostruzione del sistema fraudolento contestato in relazione ad ogni cessione di credito d’imposta, essendo necessario il nesso di pertinenzialità tra detti crediti e la fattispecie delittuosa. Su tale presupposto, la Corte di Cassazione penale, sentenza n. 7021 del 16 gennaio 2024 ha annullato l’ordinanza del tribunale di Monza, che ha sequestrato tutti i crediti d’imposta di una società di impianti elettrici poiché generati da fatture relative ad operazioni ritenute inesistenti. Secondo i giudici di legittimità, non è dato sapere come dalle sommarie informazioni rese dai proprietari degli edifici potesse evincersi la falsità di tutti i crediti fiscali dell’impresa. In tale contesto i committenti che avevano reso le dichiarazioni costituivano solo una porzione minima dei cantieri dove avrebbe dovuto operare la società, i cui crediti sono stati oggetto della misura cautelare. Inoltre, le suddette dichiarazioni provenivano solamente da venti persone per lavori pari al 25% del totale del cassetto fiscale, sicché non erano sufficienti a comprovare l’inesistenza dei lavori sui 132 cantieri costituenti l’intero ambito di operatività dell’impresa. Gli Ermellini sul punto hanno condiviso la prospettazione della ricorrente, ritenendo apparente l'impianto motivazionale dei giudici di merito nella parte in cui hanno valorizzato come elementi preponderanti a sostegno del proprio decisum, solo i fatti emersi dai verbali di sommarie informazioni di alcuni committenti sulla mancata esecuzione delle opere nei loro edifici o, al loro mancato compimento del 30% al 30 settembre 2022. Concludono i giudici del palazzaccio, che l’adito tribunale non ha vagliato ai fini della sussistenza del reato, le censure sull’irrilevanza dei crediti rinunciati e rifiutati dalla medesima società, omettendo di pronunciarsi sull’effettivo rapporto di causalità di detti crediti rispetto ai crediti fiscali oggetto di sequestro. Nella vicenda scrutinata il tribunale di Monza aveva confermato il sequestro preventivo dell’intero cassetto fiscale vantato dalla società acquirente del bonus 110%, nonostante la consulenza di parte riguardasse solo una minima parte degli edifici oggetto degli interventi agevolati, del mancato compimento del 30% delle opere al 30 settembre 2022 e che le stesse presso vari committenti non erano state realizzate. La ricorrente, dal canto suo, a sostegno delle proprie ragioni per confutare la tesi accusatoria, adduceva l’insussistenza di elementi idonei a suffragare la configurabilità in concreto della fattispecie di reato ipotizzata, producendo la documentazione attestante l'esecuzione di almeno il 30% del totale delle attività previste, le fatture dei beni per compiere gli interventi e rilevando che alcuni crediti erano stati oggetto di rinuncia o rigetto perché relativi a meri errori, subito corretti, o alla risoluzione dei rapporti contrattuali. Sulla scorta dei principi suesposti, la Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale rinviandola per un nuovo giudizio al tribunale di Monza, affinché venisse valorizzato il principio di diritto sopra esposto.