La disciplina dell'orario di lavoro delinea un insieme omogeneo di prescrizioni minime di tutela in materia di durata massima della prestazione, riposi, lavoro notturno, ferie e pause. Tale disciplina si applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati, con precise eccezioni. Presupposto di base è il concetto di orario di lavoro, che coincide con un qualsiasi periodo in cui il lavoratore è “al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Si tratta di requisiti che devono sussistere congiuntamente. La legge prevede l’obbligo di far fruire al lavoratore un riposo giornaliero di 11 ore consecutive e, in caso di reperibilità, se il dipendente viene chiamato a prestare lavoro, il computo del periodo decorre nuovamente al termine della prestazione, senza che sia possibile cumulare le ore di riposo godute antecedentemente la chiamata. Disciplina dei riposi I lavoratori hanno diritto a: - un riposo giornaliero di 11 ore consecutive ogni 24 ore; - un riposo settimanale di almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni, da calcolarsi come media in un periodo non superiore a 14 giorni; - pause, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore. Riposo giornaliero È qualificato come riposo qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro. I lavoratori hanno diritto a un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive ogni 24 ore, calcolate dall'ora di inizio della prestazione lavorativa. Deroghe alla consecutività del riposo possono essere previste dalla contrattazione collettiva per quelle attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata. I lavoratori hanno diritto ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero. Il suddetto periodo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni. Eccezioni sono previste per le attività di lavoro a turni, per quelle caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata e per il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari. Sono, altresì, previste specifiche deroghe alla collocazione di domenica del riposo settimanale. Reperibilità e richiamo in servizio vs riposo giornaliero La reperibilità costituisce un’obbligazione di attesa della eventuale chiamata del datore di lavoro e può esaurirsi nel mero rispetto di detto obbligo, senza che a tale disponibilità segua un’effettiva prestazione di servizio (reperibilità passiva), o può dare luogo alla prestazione lavorativa, nei casi in cui si verifichi il richiamo in servizio effettivo, a seguito della quale il dipendente raggiunga il posto di lavoro (reperibilità attiva). La reperibilità deve essere espressamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, e, per consolidato orientamento giurisprudenziale, costituisce una obbligazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa da quella lavorativa, che, pur comportando una limitazione della sfera individuale del lavoratore, non impedisce il recupero delle energie psicofisiche. Ne discende come il turno di reperibilità vada ricompreso all’interno dell’orario lavorativo solo allorquando il lavoratore sia effettivamente chiamato ad effettuare la prestazione lavorativa. In siffatta ipotesi sorge il diritto del lavoratore alla percezione della “indennità di reperibilità”, il cui ammontare è determinato dal CCNL ovvero da accordi aziendali. Se, invece, il lavoratore non viene chiamato a rendere l’attività lavorativa, il turno di reperibilità non viene considerato orario di lavoro ma viene qualificato come “periodo di riposo” ed al prestatore di lavoro non spetta alcun emolumento ultroneo. Può tuttavia accadere che, pur non essendo intervenuta l’effettiva chiamata del datore di lavoro, la reperibilità comprima sostanziosamente la libertà del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi. A tal proposito, la Corte di Giustizia UE ha più volte ribadito che rientrano nell’orario di lavoro anche quei servizi di reperibilità che vincolano eccessivamente il lavoratore, con un’intensità tale da incidere significativamente ed oggettivamente sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo (Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande sezione 9 marzo 2021, in causa C-344/2019; 9 marzo 2021, in causa C-107/2019; sezione V, 11 novembre 2022 in causa C-214/2020). La compressione della libertà del lavoratore va valutata tenendo conto di diversi parametri: - il tempo concesso al prestatore per riprendere l’attività lavorativa; - la frequenza media degli interventi che il lavoratore sarà effettivamente chiamato a gestire durante il periodo di guardia; - eventuali agevolazioni accordate al lavoratore in detto periodo. Sul punto, il D.Lgs. n. 66/2003, che recepisce la Direttiva Comunitaria n. 104/1993, rinvia frequentemente per la disciplina di questi istituti alla contrattazione collettiva, che nel nostro ordinamento può spingersi, entro certi limiti, fino alla cosiddetta “contrattazione di prossimità”, prevista dal D.L. n. 138/2011, ovverosia la contrattazione collettiva su base regionale, provinciale o aziendale, in deroga alla contrattazione nazionale in materia di orario di lavoro, pur nel rispetto dei principi costituzionali e dell’Unione Europea. La Cassazione, nell’ordinanza n. 16582 del 23 maggio 2022, ha altresì rilevato che il periodo di reperibilità può essere qualificato come orario di lavoro anche nel caso in cui manchi un obbligo del dipendente di permanere sul luogo di lavoro, se il complesso dei vincoli imposti al dipendente limita la sua facoltà di gestire liberamente il tempo di attesa e di dedicarsi ai propri interessi. In particolare, rilevano: - il termine di cui dispone il lavoratore, nel corso del periodo di reperibilità, per riprendere le proprie attività professionali a partire dal momento in cui il datore lo richieda; - la frequenza media degli interventi che il dipendente sarà effettivamente chiamato a garantire durante detto periodo.