Non scatta l'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo se il richiedente era consapevole – fin dall'inizio, o da un certo momento in poi – della infondatezza delle proprie ragioni. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, ordinanza n. 595 del 14 gennaio 2019, aggiungendo che «l'ipotesi di abuso del processo (di cui alla lett. a) e b) del comma 2-quinquies dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001), non esaurisce l'incidenza della temerarietà della lite sul diritto all'equa riparazione, essendo consentito al giudice di pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento». Pertanto, il giudice può valutare - e poteva farlo anche nella previgente disciplina - «anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell'articolo 96 del c.p.c.». La Suprema corte ha così rigettato il ricorso di un gruppo di militari che aveva aspettato 13 anni (dal 1997 al 2010) prima di ricevere dal Tar il diniego della propria richiesta di riconoscimento del danno patrimoniale per il mancato adeguamento retributivo, al grado di colonnello, avendo compiuto quindici anni di servizio dalla nomina a sottotenente «senza demerito». Nella sentenza il Tribunale amministrativo dava conto del fatto che la Corte Costituzionale con una pronuncia del 1990 (n. 191), quindi antecedente al ricorso, aveva dichiarato non fondata la questione. Secondo la Cassazione dunque la Corte di merito ha compiuto la sua valutazione, ritenendo «evidente che, alla luce di tale pronuncia, le possibilità di successo dell'iniziativa giudiziaria dei ricorrenti fossero ab origine praticamente nulle, con la correlativa inesistenza del potenziale patema d'animo derivante dalla situazione di incertezza per l'esito della causa promossa». E, più in generale, che «nessun patema d'animo può dirsi ricollegabile alla durata del procedimento, il cui esito era scontato, posto che la Suprema Corte ha più volte chiarito che non si tratta di un danno in re ipsa, ossia automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione insuscettibile di prova contraria, potendo essere comunque valorizzate le circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente”, come appunto nel caso di specie». In definitiva secondo la Cassazione «sebbene sia consolidato il principio secondo cui il diritto all'equa riparazione compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall'esito del giudizio presupposto, deve tuttavia osservarsi che il patema da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorché la parte rimasta soccombente, consapevole dell'inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza». E che «l'assenza di un provvedimento di condanna per responsabilità aggravata restituisce al giudice il potere di valutare la condotta dalla parte nel processo presupposto e di pervenire se del caso ad un giudizio di temerarietà della lite non formulato dal giudice di quella causa».