Il 14 febbraio 2019 il decreto Dignità compie i primi 6 mesi di “vita”. Cerchiamo di capire se la disposizione sui contratti a tempo determinato, contenuta nella legge n. 96/2018, ha raggiunto lo scopo per la quale è stata creata e cioè ridurre il più possibile i contratti a tempo, a favore di una stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Diciamo subito che il contratto a tempo determinato è la tipologia contrattuale, in assoluto, più utilizzata in Italia, ma anche quella con più regole e limiti. Una vera e propria corsa ad ostacoli per le aziende che, dal canto loro, hanno la necessità di utilizzare contratti di lavoro flessibili, al fine di gestire i bisogni di un mercato mondiale sempre più suscettibile delle oscillazioni a breve termine. Cosa dice l’ISTAT Ma torniamo agli obiettivi previsti dal decreto Dignità: aumentare i rapporti stabili e, al contempo, rendere più gravoso il contratto a termine. Le ultime rilevazioni, in ordine di tempo, le fornisce l’ISTAT con la nota mensile del 31 gennaio 2019, sull’andamento dell’occupazione in Italia a dicembre 2018. I dati non sono proprio in linea con le intenzioni del legislatore, in quanto i contratti a tempo determinato da agosto a dicembre 2018 sono aumentati di 23.514 unità (passando da 3.106.229 a 3.129.743), mentre i rapporti a tempo indeterminato sono diminuiti, nello stesso periodo, di 32.632 unità (passando da 14.838.417 a 14.805.785). Un altro dato alquanto significativo attiene all’aumento dei lavoratori autonomi che passano da 5.319.197 a 5.333.930 (più 14.733). Questo ultimo dato può avere 2 letture: un aumento di professionisti in un’ottica di maggior favore per tale attività lavorativa ovvero una trasposizione fittizia di contratti a termine sotto forma di lavoratori indipendenti, ciò al fine di eludere le regole dei contratti a tempo determinato, in particolare l’obbligo di indicare una motivazione per l’avvio del contratto a termine. Come essere in regola con il decreto Dignità Detto ciò, al fine di gestire al meglio questa tipologia contrattuale, e non contravvenire alle disposizioni di legge, è il caso di seguire queste due evidenze: 1. verificare il/i contratti collettivi applicati dall’azienda; 2. storicizzare i rapporti di lavoro che il lavoratore ha avuto, con questa tipologia contrattuale, presso l’azienda. Verifica dei contratti collettivi La prima indicazione è utile al fine di focalizzare la maggior parte delle regole del gioco, in quanto una buona parte di esse sono state delegate, dal legislatore, proprio alla contrattazione collettiva. Quando parliamo di contratti collettivi, essi sono quelli previsti dall’articolo 51, del decreto legislativo 81/2015, e cioè quei “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Quindi vanno verificati tutti i possibili contratti collettivi operanti nell’azienda. In essi, vanno cercate le disposizioni riguardanti il contratto a tempo determinato, con particolare riferimento alle seguenti disposizioni che, per l’appunto, la contrattazione collettiva può modificare in virtù delle varie deleghe che il legislatore ha previsto in capo alle parti (datore di lavoro e lavoratori): a) durata massima, b) stop & go, c) limite percentuale, d) diritto di precedenza ordinario. Una volta evidenziati, questi saranno i “paletti” che il datore di lavoro dovrà seguire per gestire correttamente i lavoratori a tempo determinato presso la propria azienda. Storicizzazione dei rapporti di lavoro La seconda regola riguarda la storicizzazione dei rapporti di lavoro effettuati dai lavoratori utilizzati con il contratto a termine. In pratica, vanno catalogate le pregresse esperienze a termine che i lavoratori hanno effettuato nell’azienda, al fine di effettuare un corretto calcolo dei principali limiti previsti. Detto controllo dovrebbe essere effettuato prima della riassunzione di un lavoratore già utilizzato dall’azienda, al fine di evitare che la successiva assunzione possa essere formalizzata non rispettando quei dettami cumulativi previsti dal legislatore. L’esempio più eclatante riguarda la durata massima che, così come prevede la legge, va calcolato tenendo conto dei seguenti principi: 1. va computata in base alle mansioni di pari livello e categoria legale; 2. vanno cumulati tutti i periodi effettuati con detta tipologia contrattuale, “per effetto di una successione di contratti”; 3. vanno computati i “periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato”; 4. vanno esclusi i periodi svolti per attività stagionali individuate dal DPR 1525/1963, nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Se l’azienda decide di assumere un soggetto senza aver avuto evidenza di possibili altri rapporti a termine effettuati in passato con il medesimo lavoratore, potrebbe instaurare un contratto non aderente alle prescrizioni di legge e di contratto collettivo e quindi passibile di sanzione che, nel caso di superamento della durata massima, è rappresentata dalla trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento. Stesso discorso, deve essere fatto per quanto riguarda la causale. Infatti, il legislatore ha previsto l’obbligo di indicare la causale, nel contratto a termine, esclusivamente qualora vi siano le seguenti caratteristiche del rapporto. Nel dettaglio quando: - sia un primo contratto stipulato con il lavoratore, per una durata superiore ai 12 mesi; - si tratti di un rinnovo rispetto ad un precedente contratto a tempo determinato; - sia una proroga per un periodo che sommato a quello iniziale supera i 12 mesi; - sia una proroga in un rinnovo di un contratto a tempo determinato; - vi sia stato un precedente rapporto in somministrazione a termine (circolare 17/2018); o in caso di stipula del c.d. Contratto assistito (sottoscritto dinanzi al funzionario dell’Ispettorato del lavoro). In particolare, se l’azienda non memorizza i pregressi rapporti a termine, può oggi instaurare un nuovo rapporto con un soggetto che ha avuto precedenti contratti a tempo determinato e non considerarlo quale rinnovo, con relativo obbligo di prevedere una motivazione. La dimenticanza dell’obbligo di indicare la causale comporta la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro. L’informazione su eventuali pregressi rapporti a termine è importante anche per il calcolo del contributo addizionale dello 0,50% che va misurato, secondo le indicazioni del Ministero del Lavoro (circolare 17/2018), in base al numero dei rinnovi effettuati. Ulteriore evidenza, circa la storicizzazione dei rapporti di lavoro a termine, riguarda la regola delle proroghe. Detta disposizione prevede la possibilità per il datore di lavoro, con il consenso del lavoratore, di prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato per un massimo di 4 volte nell’arco del massimale di durata previsto, a prescindere dal numero dei contratti. Ciò sta a significare che le proroghe passate fanno cumulo per il raggiungimento del limite massimo (4 proroghe). Se l’azienda non ha statisticato i pregressi rapporti di lavoro a termine e con essi le eventuali proroghe effettuate, può, con la nuova assunzione, superare il limite e violare la disposizione che prevede, quale sanzione, la trasformazione in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga. In definitiva, è fondamentale che il datore di lavoro abbia contezza di tutti i rapporti di lavoro a tempo determinato instaurati, con i lavoratori, durante l’intera vita aziendale, in considerazione del fatto che dal cumulo dei vari rapporti di lavoro vengono valutati i limiti previsti per l’applicazione corretta del contratto a termine.