Il contribuente non può invocare la tutela del legittimo affidamento per aver ricevuto risposta dalla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate ad un quesito in merito alla spettanza di un rimborso, posto successivamente alla presentazione dell’istanza di restituzione delle somme. In ogni caso può esser invocata la non applicazione delle sanzioni e non anche la spettanza del tributo chiesto a rimborso. A fornire questi principi è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8514 depositata il 27 marzo 2019. IL FATTO Un istituto di credito impugnava il diniego dell’Ufficio alla richiesta di rimborso IRPEG e IRAP versata su interessi ritenuti non imponibili. Mentre la CTP accoglieva l’impugnazione concordando sulla non imponibilità delle somme in discussione, la CTR, cui si appellava l’Ufficio, riteneva che detti interessi non godessero di alcuna specifica disciplina agevolativa e quindi erano da assoggettare al regime di tassazione ordinaria. Nel ricorso per cassazione la banca eccepiva, tra l’altro, l’illegittimità del provvedimento di diniego del rimborso per violazione ai principi di buona fede ed affidamento nei rapporti tributari. In sintesi, la banca - prima dell’entrata in vigore dello Statuto del contribuente (e quindi della disciplina specifica del legittimo affidamento e dell’interpello) - dopo aver presentato istanza di rimborso all’Ufficio territoriale, formulava un quesito alla direzione regionale in ordine al regime di tassazione degli interessi in discussione. La Direzione Regionale seppur con qualche riserva riteneva applicabile l’esenzione. L’ufficio territoriale comunicava alla contribuente di essere a conoscenza della risposta favorevole della Direzione Regionale ma si riservava un esame delle istanze prima di erogare il rimborso. Successivamente il medesimo Ufficio comunicava che, dopo aver acquisito il parere (questa volta negativo) della Direzione Regionale, rigettava l’istanza di rimborso evidenziando l’irrilevanza della precedente nota della Direzione insuscettibile di configurarsi in termini di risposta ad istanza di interpello tenuto conto sia della inoperatività alla data di presentazione della disciplina recata dall’art. 11 della legge n. 212/2000 sia per la carenza dell’elemento della preventività del quesito formulato dopo la presentazione dell’istanza stessa. Nel ricorso per cassazione la banca rilevava che, nell’ordinamento tributario, il limite all’applicabilità retroattiva di un ripensamento interpretativo in peius dell’Amministrazione è imposto in presenza di una situazione di affidamento tutelabile sia dal principio di buona fede oggettivo, sia dal principio costituzionale dell’affidamento nella certezza del diritto. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di ricorso in quanto il precedente parere non vincola l’Amministrazione né può negarsi all’Ufficio a seguito di verifica ed apprendimento la possibilità di cambiare orientamento e decidere adeguatamente motivando - come avvenuto nella specie - di negare il rimborso. In ogni caso la Corte chiarisce che il principio di collaborazione e buona fede previsto dall’art. 10 della legge n. 212/2000 (introdotto successivamente all’istanza di rimborso) stabilisce che non sono dovute le sanzioni e gli interessi moratori dal contribuente che abbia rispettato le indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione ancorchè successivamente modificate o qualora il suo comportamento risulti posto in esser successivamente a fatti direttamente conseguito a ritardi omissioni od errori dell’Amministrazione stessa. Va ricordato al riguardo che le Sezioni Unite (n. 23031/2007), in merito all’eventuale tutela del contribuente sotto il profilo dell’affidamento di fronte al mutamento di indirizzo interpretativo adottato dall’Amministrazione, hanno ritenuto che esso vada coniugato con il concetto di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributarie, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Ne consegue che ammettere che l’Amministrazione, quando esprime opinioni interpretative, crea vincoli per sé e i giudici tributari equivale a riconoscere all’Amministrazione stessa un potere normativo che è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge. Tutt’al più potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’Amministrazione di un precedente indirizzo interpretativo sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, rilevi ai fini dell’applicazione delle sanzioni. Le conclusioni cui giunge la Suprema Corte, che confermano i principi espressi dalle Sezioni Unite, sono certamente condivisibili. Tuttavia, a proposito delle opinioni interpretative dell’Amministrazione finanziaria che non dovrebbero vincolare non solo i giudici, ma neanche l’Amministrazione stessa, sarebbe importante che il medesimo principio venga tenuto presente e affermato allorché l’opinione (non vincolante) dell’Amministrazione sia sfavorevole al contribuente. Di sovente, infatti, nelle sentenze sia di merito sia di legittimità, i giudici conferiscono fondamentale valore ai pronunciamenti dell’Amministrazione quando non sono stati condivisi dal contribuente mentre laddove, come nella specie, l’Agenzia si sia espressa a favore del contribuente, viene evidenziata la loro irrilevanza. Da ultimo occorrerebbe chiedersi se veramente le interpretazioni dell’Amministrazione non vincolano neanche gli appartenenti all’Amministrazione stessa, quale sia il senso e soprattutto l’utilità di emanare circolari e risoluzioni se poi possono essere disapplicate dagli uffici.