Nei giorni scorsi lo ha confermato il vicepremier Matteo Salvini: si sta definendo una strategia per far uscire allo scoperto oltre 200 miliardi di euro detenuti in contanti e, tramite un’aliquota modesta e con l’abbuono totale di interessi e sanzioni, con questa nuova “money disclosure” si consentirebbe di reimmettere nel circuito economico la liquidità “pacificata”, senza rischiare accertamenti e sanzioni. Ovviamente, però, non appena si accenna a sanatorie fiscali o a regolarizzazioni del possesso di denaro iniziano le polemiche politiche e le opposizioni morali da parte di chi vede in questi abbuoni un regalo alla criminalità e non solo quella fiscale. In realtà, regolarizzare i soldi in contanti non sempre è sinonimo di chiusura politica degli occhi su fenomeni di riciclaggio di denaro sporco o sui reati di evasione fiscale, perché in molti casi la disponibilità di contanti deriva da donazioni e lasciti familiari, da regolari vincite al gioco d’azzardo o, comunque, da flussi finanziari comunque afferenti a redditi regolarmente dichiarati, ma riconducibili agli stessi con una certa difficoltà e senza alcuna possibilità di provarlo con certezza. In altri termini, detenere cash non vuol dire per forza essere evasori o trafficanti, anche se allora qualcuno si potrebbe giustamente chiedere quale sia in questi casi il problema nel presentarsi in banca per versare somme lecitamente detenute e, di converso, per quale ragione si vorrebbero aprire le porte ad un condono all’interno del quale potrebbe infilarsi anche chi non si fosse procacciato denaro con altrettanta innocenza. Rischi di contestazioni tributarie Chi però si chiedesse la ragione per cui vi sono miliardi di euro nelle cantine e nelle soffitte, è ora che cominci a prendere conoscenza e confidenza con le presunzioni di legge sull’accertamento fiscale e, nondimeno, con i comportamenti della prassi operativa dell’Agenzia delle Entrate. Storicamente, infatti, utilizzare per consumi o investimenti denaro contante, o depositarlo su un conto corrente, ha esponenzialmente incrementato i rischi di contestazioni tributarie anche infondate, atteso il fatto che il Fisco accerta sempre con grande diffidenza e sospetto il possesso e l’utilizzo di denaro contante, avendo gioco facile per metterne in discussione la provenienza lecita. Al riguardo, ben sapendo che le banconote non hanno denominazione d’origine controllata e potendo allora imporre al contribuente prove diaboliche di dimostrazione della legittimità dell’origine del denaro, è noto come il contribuente in questi casi sia sempre in grave difficoltà nel poter fornire prova certa della loro riconducibilità ad attività lecita, o comunque, già fiscalmente dichiarata. Presunzioni a favore del fisco Di converso, quindi, versare somme di denaro contante pur lecitamente detenuto risulterebbe sempre un atto tafazziano, in ragione del fatto che, per legge, i dati risultanti dalle movimentazioni bancarie "sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili”. La logica alla base della presunzione è la seguente: si presume, salvo prova contraria, che il contribuente versi quanto ha ottenuto mediante vendite di beni o prestazioni di servizi "in nero". Non vi è dubbio, peraltro, che gli articoli 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, n. 2), D.P.R. n. 633/1972 stabiliscono che gli uffici possano (e, addirittura, neanche debbano) convocare il contribuente prima di procedere all’accertamento da indagini finanziarie, ma chi conosce queste procedure ben sa come il contraddittorio sul versamento di somme di denaro sui c/c sia spesso una pantomima che si traduce automaticamente in materia imponibile accertabile, attesa la sostanziale impossibilità del contribuente di poter fornire una prova contraria certa per poter vincere quella presunzione legale di cui l’ufficio ritiene pacificamente di poter godere (pur tra le proteste della migliore dottrina). Come funzionerà la nuova sanatoria? Chiarita, allora, la ragione per cui tanto denaro riposa nei materassi degli italiani, si tratterà ora di capire se la nuova sanatoria funzionerà come una tassa patrimoniale a forfait o, invece, come un meccanismo di emersione agevolata di base imponibile analogo a quanto accadde per la voluntary disclosure, ma ciò che, a parere di chi scrive, è certo è che questa sia un’operazione da fare, non foss’altro per ricostruire il significato culturale che dovrebbe assumere l’istituto del contraddittorio nel rapporto fisco-contribuente su questo tema. Nello specifico, si ritiene che una simile nuova procedura dovrebbe essere perfezionata sulla base di dichiarazioni sostitutive dei contribuenti e anche senza particolari supporti documentali, ovvero valorizzando il regime delle dichiarazioni previste dal D.P.R. n. 445/2000. In questo modo, si ammetterebbe la possibilità di far emergere con l’autodichiarazione solo le somme provenienti da reati non diversi da quelli coperti e si farebbe incombere sull’Amministrazione la necessità di dover provare se e in quale misura queste dichiarazioni siano false. Implicitamente, quindi, alle dichiarazioni del contribuente si attribuirebbe una presunzione di veridicità. E se si prevedesse, unitamente a questo mutamento culturale, anche un regime premiale nei confronti di chi vincolasse i suoi patrimoni a specifici obiettivi di bilancio erariale, con questa procedura forse sarebbe meglio finanziato qualche debito della PA, accantonando, almeno per il momento, l’idea di ricorrere ai suggestivi mini-Bot.