Licenziabile per giusta causa il sindacalista che fa un «attacco gratuito ai vertici aziendali». In particolare, il rappresentante dei lavoratori aveva attribuito alla «persona posta ai massimi vertici aziendali» l'esercizio di pressioni per indurlo a prendere posizione a favore dell'azienda in un contenzioso contro un altro dipendente, ed a lasciare il suo ruolo di RLS, affermazioni poi rivelatasi false grazie all'ascolto delle registrazioni audio. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 19027 del 16 luglio 2019, confermando la decisione della Corte di appello di Torino. Per il giudice di secondo grado un simile comportamento ha leso «irrimediabilmente il vincolo fiduciario» e nuociuto all'«immagine» aziendale essendo stato espresso in sede conciliativa e dunque alla presenza di «persone estranee». Nulla da fare dunque per il dipendente del V livello contrattuale - «rappresentante sindacale, quale RSU-RSL, e da sempre componente del direttivo Fiom della Valle d'Aosta» -, che aveva chiesto l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli nel marzo 2016 dalla Cogne Acciai Speciali, sostenendone la «natura ritorsiva, antidiscriminatoria e antisindacale», chiedendo la «tutela reintegratoria e risarcitoria». In primo grado, al contrario, il Tribunale aveva ritenuto illegittimo il provvedimento espulsivo e condannato la società alla reintegra del lavoratore intimando alla società il pagamento, a titolo risarcitorio e di indennità di preavviso, rispettivamente di 42.230 e di 5.278 euro. Proposto ricorso, la Suprema corte lo ha dunque bocciato sulla base del fatto che, in sede di merito, le dichiarazioni rese dal sindacalista, e poste alla base del licenziamento disciplinare, sono state ritenute «non veritiere». Né potevano considerarsi come pertinenti al diritto di difesa, come più tardi sostenuto, in quanto il procedimento disciplinare nei suoi confronti non era ancora iniziato. «Sicché - conclude la Corte -, nemmeno si pone il tema della configurabilità di un esercizio di difesa da verificare alla luce dei principi in materia, secondo i quali, in riferimento al licenziamento per giusta causa, è consentita l'attribuzione dal lavoratore al proprio datore di lavoro di atti o fatti, pur non rispondenti al vero ma concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché con espressioni sconvenienti od offensive, non costituendo illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto, trattandosi di condotta scriminata dall'art. 598, primo co. c.p., con portata generale, espressiva del legittimo esercizio del diritto di difesa nell'ambito di procedimento disciplinare ai sensi degli artt. 24 Cost. e 51 c.p.: sul preliminare presupposto che ciò avvenga in sede di giustificazioni per pregressa contestazione (Cass. 22 giugno 2018, n. 16590)».