Ai fini della sussistenza dei presupposti per l’emissione di un sequestro preventivo sono sufficienti le presunzioni legali previste dalla disciplina tributaria. Pertanto, in assenza di elementi di segno contrario forniti dall’indagato, in base alle risultanze di accertamenti bancari eseguiti dall’Agenzia delle Entrate è legittima la misura cautelare reale, anche se tali elementi non possono poi costituire da soli la prova della commissione del reato contestato. Questi i principi stabiliti dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 31221 depositata il 16 luglio 2019. IL FATTO Il GIP disponeva il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, delle somme giacenti sui conti correnti intestati ad una ditta individuale, alla titolare della stessa e al marito della donna, ritenuto amministratore di fatto dell’impresa, nonché, per equivalente, dei beni riferibili alle due persone fisiche fino a concorrenza di oltre due milioni di euro. Il provvedimento riguardava la contestazione di dichiarazioni infedeli (art. 4, D.Lgs. n. 74/2000) per diverse annualità, derivanti fondamentalmente da accertamenti bancarieseguiti dall’Agenzia delle Entrate. L’atto veniva impugnato e la difesa si basava su tre punti: a) l’imponibile dichiarato per ciascun anno d’imposta dall’impresa era sempre superiore rispetto ai versamenti contestati; b) i prelevamenti sono considerabili ricavi non dichiarati solo se il contribuente non ne indica il beneficiario (art. 32, D.P.R. n. 600/1973), ma nella specie tali indicazioni erano state fornite già in sede di verifica fiscale; c) gli altri imponibili contesati, non derivanti da accertamenti bancari, non superavano la soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice. Il Tribunale del riesame confermava la legittimità del sequestro e pertanto l’ordinanza veniva impugnata in Cassazione, evidenziando sostanzialmente gli stessi elementi già proposti nei giudizi di merito. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione rigettava totalmente il ricorso proposto dal contribuente, fondamentalmente richiamando i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia tributaria. In primo luogo, è stato ribadito che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo da sole costituire fonte di prova in merito alla commissione del reato contestato, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti, idoneo a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale. La presunzione derivante da accertamenti bancari può essere superata solo se il contribuente offre l’analitica giustificazione delle operazioni contestate, atteso che l’onere probatorio gravante sull’Ufficio è soddisfatto attraverso l’indicazione dei semplici dati risultanti dai conti corrente. In sostanza la prova contraria che il contribuente deve fornire deve riguardare ogni singola movimentazione bancaria, sia di versamento che di prelievo, con dimostrazione che le stesse sono estranee ad operazioni imponibili o comunque all’attività dell’impresa, ovvero sono state specificatamente registrate nelle scritture contabili ai fini della determinazione del reddito (e quindi in sostanza già oggetto di tassazione). Pertanto, correttamente il Tribunale del Riesame aveva ritenuto irrilevante il fatto che globalmente i versamenti sul c/c fossero inferiori rispetto alle entrate complessivamente dichiarate dall’impresa, non essendo stata fornita la riconciliazione tra ogni movimentazione bancaria e la corrispondente registrazione contabile. Lo stesso valeva per i prelevamenti, non essendo sufficiente la sola indicazione del beneficiario: occorreva comunque evidenziarne, per ognuno di essi, l’estraneità all’attività d’impresa oppure l’annotazione nelle scritture contabili.