Agenzia delle Entrate - Risposta n. 254 del 17 luglio 2019 Ai fini della disapplicazione della disciplina Cfc e della tassazione integrale sui dividendi, l’esimente della mancata localizzazione del reddito in un paradiso fiscale può essere soddisfatta dimostrando che l’investimento non ha dato origine a un significativo risparmio d’imposta, valorizzando il carico fiscale complessivamente gravante sui redditi della controllata estera. La conferma arriva dalla risposta n. 254 del 17 luglio 2019, con cui le Entrate si sono espresse in merito alle condizioni per disapplicare la disciplina Cfc e la tassazione integrale dei dividendi nel contesto normativo applicabile nel 2017, anteriormente quindi alle modifiche alla disciplina Cfc introdotte dal decreto Atad. IL QUESITO La questione sottoposta alle Entrate riguardava una società italiana controllante una società residente in Paraguay, proprietaria di un latifondo e attiva nella commercializzazione di prodotti agricoli. La partecipata era soggetta a un’aliquota nominale sul reddito pari al 10%, ricadendo così nella disciplina Cfc, in base all’articolo 167, comma 4, del Tuir che, nella versione vigente all’epoca dei fatti stabiliva che «i regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia». Il comma 5 dell’articolo 167, nel testo in vigore fino al 2018, prevedeva tuttavia la possibilità di disapplicare la disciplina Cfc dimostrando, alternativamente, che la società partecipata non residente svolge un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento (cosiddetta “prima esimente”) ovvero che dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (cosiddetta “seconda esimente”). La dimostrazione della seconda esimente, inoltre, consentiva di non applicare la tassazione integrale dei dividendi. LA RISPOSTA DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE Ciò premesso, con la risposta all’interpello le Entrate, richiamando la circolare 6 ottobre 2010, 51/E, hanno confermato che la ricorrenza della seconda esimente può essere soddisfatta dimostrando che l’investimento non ha dato origine a un significativo risparmio d’imposta, valorizzando il carico fiscale complessivamente gravante sui redditi della Cfc. A tal fine, occorre considerare il carico impositivo complessivo subito dal reddito della società estera partecipata a prescindere dal luogo in cui il reddito si considera prodotto e dallo Stato in cui avviene la tassazione, tenendo conto anche del prelievo subìto dai diversi soggetti del gruppo societario, includendo anche l’imposizione sui dividendi distribuiti ai soci non residenti. Applicando tale regola, la società istante ha calcolato il tax rate effettivo della società includendo anche le ritenute alla fonte e le addizionali sugli utili distribuiti ai soci esteri, arrivando a determinare un tax rate effettivo estero superiore alla metà dell’aliquota nominale italiana (Ires + Irap), circostanza che le Entrate hanno ritenuto sufficiente per la disapplicazione della disciplina.