La valutazione della prova presuntiva impone al giudice di merito di esaminare tutti gli indizi di cui dispone, evitando di considerarli isolatamente, valutandoli complessivamente senza negare valore a uno o più di essi solo perché equivoci, in modo da stabilire se sia comunque possibile ritenere ragionevolmente probabile l’esistenza del fatto da provare. A tale conclusione è giunta la Corte di Cassazione attraverso l’ordinanza n. 16693 del 21 giugno 2019. Come è noto l’onere della prova concerne i fatti e, naturalmente, anche le stesse presunzioni condizionano il giudizio sul fatto. Il concetto di presunzione nel diritto tributario non ha una sua connotazione propria e occorre, pertanto, rifarsi a quanto disposto dalla disciplina civilistica attraverso gli articoli 2727, 2728 e 2729 del Codice civile. L’articolo 2727 definisce le presunzioni come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato». Per presunzione va inteso pertanto il collegamento esistente tra il fatto noto e il fatto ignorato, ossia l’operazione, l’inferenza, il ragionamento, che vengono compiuti dalla legge (presunzioni legali) o dal giudice (presunzioni semplici) per risalire dall’uno all’altro. Le presunzioni non stabilite dalla legge sono «lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti» (articolo 2729 del Codice civile). In merito alla presunzione semplice, l’inferenza sulla quale la stessa si fonda deve essere provata in giudizio e il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio il quale ha, pertanto, il dover di dimostrare che il nesso inferenziale tra fatto noto e fatto ignorato possiede i requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cassazione, sentenza 7881/2016). È opportuno rammentare che, nel momento in cui la presunzione semplice risulta formata e provata in giudizio, la stessa acquisisce la medesima rilevanza della presunzione legale relativa, nel senso che determina il trasferimento dell’onere della prova contraria in capo a colui avverso il quale la presunzione dispone. Nell’ambito della prova per presunzioni il giudice, chiamato a esercitare la propria discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in maniera tale da rendere esplicitamente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola in due differenti momenti valutativi che prevedono una prima valutazione analitica degli elementi indiziari finalizzata a escludere quelli intrinsecamente privi di rilevanza e a mantenere, invece, quelli che, valutati singolarmente, presentano una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria, accompagnata da una doverosa valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati al fine di accertare se gli stessi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando frammentariamente solo uno o alcuni di essi. La Corte Suprema ritiene pertanto censurabile una decisione nella quale un giudice si limiti a negare il pregio indiziario degli elementi acquisiti in giudizio senza verificare se gli stessi, quand’anche separatamente sprovvisti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla qualora valutati nella loro sintesi, in quanto ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di reciproco completamento (Cassazione, ordinanza 9059/2018).