Se il Fisco procede all’accertamento di maggiori ricavi sulla base delle indagini finanziarie, è tenuto a riconoscere i costi proporzionali ai maggiori ricavi accertati? La risposta non è univoca e dipende dal contesto. Di fatto, è una questione che rappresenta - insieme alle modalità probatorie - la più grande problematica applicativa delle indagini finanziarie. La giurisprudenza In assenza di una chiara disposizione normativa al riguardo, è necessario rifarsi, innanzitutto, alla giurisprudenza di legittimità, la quale è ormai ferma da moltissimo tempo nel ritenere illegittimo l’accertamento induttivo puro di maggiori ricavi senza il contestuale riconoscimento di costi induttivi. Pertanto, se l’ufficio procede all’accertamento di maggiori ricavi sulla base di prelevamenti e versamenti, deve riconoscere anche dei costi induttivi. Ciò vale, però, secondo la Cassazione, soltanto per gli accertamenti induttivi puri, ovvero quelli che, a mente dell’articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973, prescindono dalla contabilità e dalla dichiarazione del contribuente, come avviene tipicamente in caso di evasore totale, che non ha presentato la dichiarazione dei redditi e non ha tenuto la contabilità; mentre, per i giudici di legittimità, se l’ufficio procede con accertamento analitico-induttivo (o più propriamente, analitico con presunzione) ex articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, non solo non deve, ma neppure può riconoscere costi scomputabili dai maggiori ricavi accertabili, perché in tal caso spetta al contribuente dimostrare la sussistenza di tali maggiori costi deducibili. La posizione delle Entrate L’orientamento risulta in linea con la prassi delle Entrate, secondo cui le presunzioni legali previste dall’articolo 32 del Dpr 600/1973 assumono, a seconda della metodologia e tipologia di accertamento prescelta, distinta valenza nell’ambito della determinazione della pretesa tributaria, anche in funzione dell’ammissibilità e delle modalità del riconoscimento dei componenti negativi: in particolare, in caso di accertamento fondato sia sul metodo analitico che su quello analitico-induttivo, la ricostruzione del reddito d’impresa trae comunque origine dalla contabilità, ma può essere supportata dall’impiego di presunzioni che, tuttavia, devono rispettare rigorosamente i requisiti di gravità, precisione e concordanza, e pertanto nessun margine si offre all’ufficio procedente ai fini di un possibile riconoscimento di componenti negative di cui non è stata fornita da parte del contribuente prova certa; diversamente, in caso di ricostruzione del reddito d’impresa sulla base del metodo induttivo puro, l’ufficio non può non tenere conto, soprattutto in assenza di documentazione certa, di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi accertati; regola che, ovviamente, vale anche se in tutto o in parte i maggiori ricavi siano stati assunti tramite indagini bancarie (circolare 32/E del 2006). Il riconoscimento di costi Eppure non sembra illogica la richiesta di riconoscimento di costi che i contribuenti avanzano anche in caso di accertamento analitico-induttivo sulla base delle indagini finanziarie: se è vero che i versamenti sono riconducibili a incassi “in nero” e quindi concorrono al maggior reddito accertabile, originato da quei costi già contabilizzati e dichiarati dal contribuente, è altresì vero che i prelevamenti dell’imprenditore sono presumibilmente riconducibili ad acquisti “in nero” che danno luogo, appunto, ad ulteriori maggiori ricavi accertabili, ma è improbabile che quei costi, proprio perché “in nero”, siano transitati per la contabilità e, quindi, secondo i contribuenti, di essi l’ufficio dovrebbe tenerne conto in sede di accertamento seppur analitico-induttivo. Per ora, però, Cassazione e prassi ministeriale si oppongono.