Integra il reato di autoriciclaggio la vendita di diamanti a prezzi maggiorati reinvestendo il profitto nell'acquisto di nuove pietre. La tracciabilità dei passaggi non esclude il reato. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 37606 dell'11 settembre 2019. IL FATTO Il caso trae origine da una ordinanza con cui il Tribunale di Milano, in sede di riesame di misure cautelari reali, confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip in relazione ai reati di truffa aggravata, autoriciclaggio e per il reato di cui agli artt. 56 e 2635 cod. civ. In particolare, la vicenda riguarda la vendita di diamanti a prezzi maggiorati rispetto al loro valore di mercato, effettuata dalla società attraverso la collaborazione di funzionari esterni, i quali indirizzavano all'acquisto numerosi clienti delle banche, a ciò indotti per effetto di informazioni fasulle sul valore delle pietre e sulle modalità dell'investimento. I diamanti sarebbero stati consegnati sulla base di accordi presi con le banche, che ricevevano un corrispettivo per il fatto di indirizzare i propri clienti all'acquisto delle pietre preziose fornite da detta società. Secondo il ricorrente non potrebbe configurarsi oggettivamente il fumus del reato di autoriciclaggio, dal momento che mancherebbe nella condotta contestata la modalità prevista dalla legge di creare ostacolo concreto alla identificazione della provenienza delittuosa del bene oggetto di reimpiego. Infatti, nel caso all'esame, "l'attività imprenditoriale in cui verrebbero investiti i profitti illeciti (...) coinciderebbe esattamente con quella che, in altro capo di imputazione, viene contestata proprio in relazione al reato presupposto". L'attività di acquisto dei diamanti era peraltro tracciabile perché inserita nei bilanci della società. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione respinge il ricorso. Sul punto, gli Ermellini richiamano la pacifica giurisprudenza di legittimità formatasi a proposito del reato di riciclaggio, secondo la quale integra tale ultimo reato il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l'accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento o l'astratta individuabilità dell'origine delittuosa del bene non costituiscono l'evento del reato. Peraltro, le valutazioni del caso debbono essere orientate da un criterio ex ante; è persino ovvio, infatti, che nel momento in cui in qualunque contesto di indagine sia identificata un'operazione finanziaria o imprenditoriale sospetta, si abbia una riemersione dell'attività di occultamento, senza tuttavia che ciò possa escludere, a posteriori, il requisito della concretezza, a meno di non voler ritenere che l'art. 648 ter I cod. pen., prefiguri un'incriminazione impossibile. E proprio il fatto che l'ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa debba essere "concreto" - aggettivo che il legislatore ha aggiunto alla fattispecie di autoriciclaggio rispetto a quella di riciclaggio - è stato ben sottolineato dall'ordinanza impugnata. Nella parte in cui ha messo in luce come le operazioni di acquisto dei diamanti con il profitto della truffa, fossero state effettuate in favore di società di diritto estero, con conseguente maggiore complessità della ricostruzione dei flussi finanziari, con confusione nel patrimonio lecito di queste e con trasformazione della res (il denaro utilizzato per l'acquisto), in diamanti, a loro volta reimmessi nel circuito imprenditoriale facente capo al ricorrente. Infine, che le operazioni di acquisto dei diamanti con il profitto del reato di truffa fossero state tracciabili, in quanto contenute nei bilanci della società, secondo i giudici non è elemento idoneo ad escludere la sussistenza del reato di autoriciclaggio ed, in particolare, del requisito della idoneità del reimpiego ad ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa. Ne consegue il rigetto del ricorso.