La Corte di Cassazione, ordinanza n. 22742 del 12 settembre 2019, blinda l'equo compenso anche sotto la vigenza delle vecchie tariffe professionali. La III Sezione civile, affermando un principio di diritto, ha infatti stabilito che «ai sensi dell'art. 24 della legge n. 794 del 1942 e dell'art. 4 del Dm 127/2004, previgente rispetto al DM 55/2014, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del Consiglio dell'ordine competente relativo ad una inferiore liquidazione». La Suprema corte ha così accolto (sotto questo profilo) il ricorso di una donna rimasta coinvolta in un incidente stradale contro l'assicurazione dell'autocarro che lo aveva causato. La ricorrente, tra l'altro, aveva infatti lamentato la violazione tariffe professionali assumendo che il valore della causa era molto più alto di quello al quale il giudice si era riferito per la liquidazione. La Cassazione ha accolto il motivo affermando che nelle cause in materia di pagamento di somme, «la liquidazione dei diritti e degli onorari deve essere ricondotta al valore della controversia, consistente nell'importo attribuito alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandato». «Ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente - si legge nell'ordinanza -, il valore della controversia va fissato in armonia con il principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell'opera professionale effettivamente prestata [...] sulla base del criterio del "disputatum" (ossia di quanto richiesto), tenendo però conto che, in caso di accoglimento solo in parte della domanda ovvero di parziale accoglimento dell'impugnazione, il giudice deve considerare il contenuto effettivo della sua decisione (criterio del decisum) salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della parte debitrice, convenuta in giudizio, nel quale caso il giudice terrà conto non di meno del "disputatum", ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa». Non solo, la Corte precisa che «per la determinazione del valore della causa, gli interessi scaduti si sommano al valore del capitale». E, prosegue, «il principio è riferibile anche al valore del decisum e cioè della somma attribuita». Per la individuazione della quale «ove siano stati pagati acconti in sede stragiudiziale - e quindi prima che il processo venga incardinato - essi vanno detratti dall'importo complessivamente riconosciuto per i titoli dedotti». Dunque, tornando al caso specifico, per un verso, dal quantum debeatur complessivamente riconosciuto si doveva detrarre l'acconto già percepito in via stragiudiziale, dall'altro «sommare gli interessi e la rivalutazione». Fatti tutti i calcoli, la liquidazione delle spese «risulta effettivamente erronea in quanto le somme indicate si collocano al di sotto dei minimi tariffari vigenti all'epoca della decisione in cui sussisteva il vincolo legale della loro inderogabilità», senza peraltro che la Corte territoriale abbia fornito alcuna spiegazione per gli importi minori liquidati. In merito poi alle spese di assistenza legale stragiudiziale, diversamente da quelle giudiziali vere e proprie, la Cassazione precisa che esse «hanno natura di danno emergente e la loro liquidazione, pur dovendo avvenire nel rispetto delle tariffe forensi, è soggetta agli oneri di domanda, allegazione e prova secondo le ordinarie scansioni processuali». Sara ora la Corte di appello di Roma a dover riesaminare la controversia, relativamente ai motivi accolti, sulla base dei principi di diritto affermati dall'ordinanza di rinvio.