A seguito di una segnalazione di Bankitalia, per un'ipotesi di falso in bilancio, sono legittimi i decreti del Pm che dispongono la perquisizione e il sequestro di computer e pen-drive dei vertici della banca. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 38456 del 17 settembre 2019, respingendo i ricorsi del Presidente del Cda, del Direttore centrale crediti, del D.g. e del Risk manager della Banca di Pisa e Fornacette Credito Cooperativo. Secondo l'ipotesi accusatoria, le false comunicazioni sociali, riguardanti il bilancio 2016, erano avvenute mediante la cessione infragruppo, a favore della controllata Sigest, del residuo patrimonio immobiliare della Banca e attraverso la rivitalizzazione di crediti, inizialmente portati a sofferenza verso cinque creditori. Il management, e la banca stessa, hanno proposto ricorso contro la misura giudicata «sproporzionata» rispetto all'accusa. La V Sezione, per prima cosa, ricorda che «l'art. 244, comma 2, c.p.p. prevede la possibilità di adottare, riguardo ai rilievi ed alle operazioni tecniche da effettuare in relazione a Sistemi informatici o telematici, misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originari e ad impedirne l'alterazione». E «l'art. 247, comma 1 bis, c.p.p. prevede analoghi accorgimenti, nel consentire la perquisizione di un sistema informatico o telematico, anche se protetto da misure di sicurezza, quando vi è fondato motivo di ritenere che in essi si trovino dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti a reato analoga possibilità di perquisizione è riconosciuta alla polizia Giudiziaria dall'art. 352, comma 1-bis, c.p.p.». Riguardo invece alla supposta sproporzione della misura, la Suprema corte afferma che «l'ordinanza impugnata ha dato conto dell'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri e meno invasivi strumenti cautelari, sulla base della valutazione della complessiva vicenda e, segnatamente, rilevando le difficoltà operative e tecniche di procedere ad una perquisizione mirata di dati relativi ad accertamenti complessi, riguardanti più parti (banca e diversi creditori, nonché rapporti infragruppo, con la controllata Sigest) e l'acquisizione di documentazione contabile, anche di natura tecnica, relativa al confezionamento del bilancio». Una misura dunque conforme al consolidato orientamento della Cassazione per cui «in tema di acquisizione della prova, l'autorità giudiziaria, ai fine di esaminare un'ampia massa di dati i cui contenuti sono potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre il sequestro dai contenuti molto estesi». «Il sequestro probatorio, infatti, può coprire il singolo apparato, il dato Informatico in sé, ovvero il medesimo dato quale mero "recipiente" di informazioni». Del resto, conclude la Corte, i ricorrenti non hanno neppure dedotto quale sia «l'interesse leso», mentre esso deve essere «concreto ed attuale, specifico ed oggettivamente valutabile, sulla base di elementi univocamente indicativi della lesione di interessi primari (quali quello alla riservatezza o al segreto), conseguenti all'indisponibilità temporanea delle informazioni contenute nei documenti informatici sottoposti a sequestro».