Non sussiste alcuna ragione plausibile per sancire l’irreparabile sacrificio dei diritti della generalità dei creditori in buona fede, a fronte di provvedimenti di sequestro o di confisca che abbiano attinto il loro debitore, né per discriminare la loro posizione rispetto a quelle salvaguardate. Pertanto, con sentenza n. 26 del 27 febbraio 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato che l’art. 1, comma 198, della legge di Stabilità 2013 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui limita alle specifiche categorie di creditori ivi menzionati la possibilità di ottenere soddisfacimento dei propri crediti sui beni del proprio debitore che siano stati attinti da confisca di prevenzione. IL FATTO La Corte di Cassazione, sezione I penale, ha rivolto alla Corte Costituzionale i propri dubbi in merito all’art. 1, comma 198, della legge n. 228/2012 (legge di Stabilità 2013), in riferimento agli articoli 3 e 41, comma 1, della Costituzione. Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, consentendo alle sole categorie di creditori ivi indicate il soddisfacimento del proprio credito sui beni del proprio debitore sottoposti a confisca di prevenzione, discriminerebbe i restanti creditori in buona fede, sacrificando irragionevolmente il loro diritto di credito rispetto all’interesse statale ad assicurare l’effettività della misura di prevenzione; con conseguente violazione di entrambi i parametri costituzionali evocati. LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Corte Costituzionale evidenzia come le questioni in esame ripropongono la tematica della tutela dei terzi creditori rispetto al sequestro e alla confisca di prevenzione già ampiamente analizzata dalla sentenza n. 94 del 2015. Con tale sentenza, la disposizione in esame (art. 1, comma 198, legge n. 228/2012) era già stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 36 Cost., "nella parte in cui non include tra i creditori che sono soddisfatti nei limiti e con le modalità ivi indicati anche i titolari di crediti da lavoro subordinato". La Corte aveva in effetti ritenuto che la disposizione censurata, escludendo i crediti da lavoro da ogni possibilità di soddisfazione sui beni confiscati del debitore, comportasse un radicale e irreparabile sacrificio dell’interesse dei lavoratori, non giustificato dall’esigenza di assicurare la tutela del contrapposto interesse sotteso alle misure patrimoniali, ricollegabile a esigenze di ordine e sicurezza pubblica, pure anch’esse - in astratto - costituzionalmente rilevanti. E ciò, in particolare, "nell’ipotesi di confisca “totalizzante” la quale investa, cioè [...] l’intero patrimonio del datore di lavoro". In quell’occasione, la Corte aveva altresì rilevato che "[l]a disciplina censurata non può essere [...] giustificata in una prospettiva di bilanciamento con l’interesse sotteso alle misure di prevenzione patrimoniali, ricollegabile ad esigenze di ordine e sicurezza pubblica anch’esse costituzionalmente rilevanti". Analoghe considerazioni possono ripetersi, sotto il diverso angolo visuale dell’art. 3 Cost. che deve essere preso in considerazione per la generalità dei crediti non compresi nell’elenco tassativo contenuto nella disposizione censurata, e diversi da quelli aventi origine in un contratto di lavoro subordinato, ai quali unicamente fa riferimento la sentenza n. 94 del 2015. Non sussiste, infatti, alcuna ragione plausibile per sancire l’irreparabile sacrificio dei diritti della generalità dei creditori di buona fede, a fronte di provvedimenti di sequestro o di confisca che abbiano attinto il loro debitore; né di discriminare la loro posizione rispetto a quelle sole oggi salvaguardate dalla disposizione censurata. La giusta esigenza di evitare manovre collusive con il debitore sottoposto a procedimento di prevenzione può essere soddisfatta attraverso la verifica delle condizioni imposte per il soddisfacimento dei diritti di credito dei terzi. Fra tali condizioni spiccano, in particolare, la necessità che il credito, o il diritto reale di garanzia, abbiano data certa anteriore al sequestro, che l’escussione del restante patrimonio sia risultata insufficiente al soddisfacimento del credito (salvo per i crediti assistiti da cause legittime di prelazione sui beni sequestrati), e che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità; buona fede che dovrà essere valutata dal tribunale tenendo conto "delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi". La Corte Costituzionale dichiara quindi che l’art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012 deve, conseguentemente, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui limita alle specifiche categorie di creditori ivi menzionati la possibilità di ottenere soddisfacimento dei propri crediti sui beni del proprio debitore che siano stati attinti da confisca di prevenzione.