Succede spesso che, in fase di ricerca e selezione di una nuova risorsa, si “intercetti” sul mercato del lavoro un candidato che nel “pacchetto retributivo” complessivamente percepito usufruisca anche di buoni pasto, così come succede che in occasione di una contrattazione collettiva, magari aziendale, il sindacato o la rappresentanza sindacale aziendale richiedano il riconoscimento del buono pasto a favore dei lavoratori, sostenendone l’obbligatorietà qualora l’orario di lavoro preveda la pausa pranzo. Il lavoratore che svolge la propria attività per almeno 6 ore ha sempre diritto al buono pasto? Ha diritto al buono pasto chi lavora durante l’ora di pranzo o l’ora di cena, anche se non fa la pausa? I lavoratori part-time hanno diritto ai buoni pasto? Cosa succede se il valore del buono pasto supera la soglia di esenzione? E se vengono riconosciuti buoni pasto pur in assenza di attività lavorativa prestata? Facciamo il punto della situazione anche alla luce della sentenza della Cassazione che nel luglio 2023 ha stabilito l’obbligo del servizio mensa qualora reso obbligatorio dalla contrattazione collettiva. Trattamento fiscale e previdenziale dei buoni pasto Ai sensi dell’art. 51, co. 2, lett. c) del TUIR, non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente i buoni pasto fino all’importo complessivo giornaliero di 4 euro se cartacei, elevati a 8 euro se elettronici. La normativa di natura fiscale va letta e interpreta con le disposizioni del D.M. n. 122/2017 con il quale è stato precisato che i buoni pasto devono consentire al titolare di ricevere un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono pasto e all’esercizio convenzionato di provare documentalmente l'avvenuta prestazione nei confronti delle società di emissione. La norma precisa, inoltre, che gli stessi buoni pasto possono essere utilizzati esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l'orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato. Si ricorda che i buoni pasto non devono essere cedibili, né cumulabili oltre il limite di 8 buoni, né commercializzabili o convertibili in denaro e sono utilizzabili solo dal titolare e devo essere usati esclusivamente per l'intero valore facciale. A differenza di quanto previsto per i beni e servizi fino a 258,23 annui, i buoni pasto: - per essere esenti da un punto di vista fiscale e contributivo devono essere riconosciuti alla generalità dei dipendenti o a categorie omogenee; l’eventuale riconoscimento al singolo lavoratore fa sì che il controvalore sia considerato come trattamento “ad personam” e come tali assoggettati a piena imponibilità fiscale e contributiva; - sono aggiuntivi e non vanno ad intaccare il limite di esenzione generale di 258,23 annui (3.000 euro annui per i soli lavoratori con figli a carico per il 2023). Il decreto, inoltre, ha previsto che: - è consentita la cumulabilità di utilizzo fino a 8 buoni contemporaneamente, fermo restando che i buoni continuano a non essere commercializzabili e/o convertibili in denaro e sono utilizzabili solo dal titolare, esclusivamente per l’interno valore facciale; - possono essere utilizzati anche in giornate non lavorative. Su quest’ultimo tema si ritiene utile precisare che fruizione anche in giornate non lavorative non coincide con il concetto di maturazione del buono pasto. Il buono pasto, infatti, deve essere concesso per ogni giornata effettivamente lavorata dal lavoratore, essendo un sostituto del servizio mensa aziendale, con la conseguenza che qualora il lavoratore dovesse risultare assente dal lavoro a qualsiasi titolo (ferie, permessi, maternità, infortunio, ecc.) non avrebbe potuto fruire del servizio mensa venendo meno il requisito dell’esenzione fiscale e previdenziale dello stesso. Nel caso in cui l’azienda decidesse di corrisponderli comunque al lavoratore anche per i giorni di mancata prestazione lavorativa, il corrispettivo del buono pasto andrebbe interamente assoggettato a tassazione e contribuzione (lato lavoratore e azienda). Una particolarità riguarda il lavoro agile: la legge n. 81/2017 sancisce un principio generale secondo il quale il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. In tema di buono pasto esente e prestazione smart, l’Agenzia delle Entrate (risposta a interpello n. 123/2021) ha chiarito che in assenza di disposizioni che limitano l'erogazione da parte del datore di lavoro dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti, si ritiene che per tali prestazioni sostitutive del servizio di mensa trovi applicazione il regime di parziale imponibilità prevista dalla legge indipendentemente dall'articolazione dell'orario di lavoro e dalle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa. Buoni pasto e franchigia benefit di 258,23 euro Si è posto anche il problema di versificare se, nel caso di emersione di un benefit relativamente all’erogazione dei buoni pasto, per valori superiori a 4 o 8 euro, il valore di questi ultimi poteva essere confrontato con la franchigia prevista dall’art. 51, co. 3, TUIR, ultimo periodo, il quale prevede che “Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d'imposta a euro 258,23 euro; se il predetto valore è superiore al citato limite, lo stesso concorre interamente a formare il reddito”. La risposta dell’Agenzia delle Entrate (ris. n. 26/E/2016) è stata negativa, nel senso che il valore del buono che dovesse superare la soglia di non imponibilità, sarà da assoggettare a tassazione (e contribuzione) senza prendere in considerazione la franchigia anzidetta. L’Agenzia delle Entrate ha infatti chiarito che “L'evidenziazione del valore nominale porta, quindi, a ritenere che i ticket restaurant non costituiscano erogazioni in natura. L'importo del loro valore nominale che eccede il limite di esenzione non può, pertanto, essere considerato assorbibile dalla franchigia di esenzione prevista dal comma 3, dell'art. 51 e, quindi, concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente”. Obbligo di riconoscere il buono pasto Il D.M. n. 122/2017, all’art. 4), comma 1, lett. c), prevede che i buoni pasto sono utilizzati esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l'orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato. La norma, pertanto, non prevede alcun diritto per il lavoratore al buono pasto e pertanto non vige nessun obbligo in capo al datore di lavoro di riconoscerlo. Obbligo che potrebbe invece essere posto qualora fosse il contratto collettivo, nazionale o aziendale, che ne prevede il riconoscimento. Sulla obbligatorietà o meno del buono pasto qualora previsto dalla contrattazione collettiva si segnala che la Cassazione (ordinanza n. 23255 del 31 luglio 2023) ha ribadito il principio di diritto secondo cui: “l’attribuzione del buono pasto (quale agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente) è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno 6 ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato”. La pronuncia nasce da un ricorso presentato da alcuni lavoratori di un ospedale, al fine di ottenere il risarcimento dei danni per la mancata istituzione del servizio mensa. La Corte d’Appello, accogliendo la domanda, ha affermato che il diritto dei lavoratori in questo caso derivava dalla corretta applicazione della contrattazione collettiva. La Cassazione, confermando, ha rilevato che: - il diritto alla mensa è strettamente collegato al diritto alla pausa. - il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto; - in presenza di tale circostanza, al dipendente deve essere riconosciuto il servizio di mensa o una modalità alternativa allo stesso, sulla base della contrattazione collettiva applicata.