La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12398 depositata il 7 maggio 2024, ha fornito importanti indicazioni sull’applicazione dell’imposta di registro alla caparra penitenziale. Si ricorda che la caparra penitenziale (prevista dall’art. 1386 c.c.) è la somma di denaro che una parte consegna all’altra, al momento della conclusione del contratto, quale corrispettivo del diritto di recesso che le parti hanno inserito in atto. In pratica, si tratta di un negozio accessorio, che si lega necessariamente ad un altro contratto nel quale viene prevista la facoltà di recedere dal contratto (ai sensi dell’art. 1373 c.c.), individuando anche un “prezzo” per l’esercizio di tale diritto, che viene anticipatamente corrisposto da una parte all’altra. Una volta versata la caparra penitenziale, si attiva il seguente meccanismo: - se recede la parte che ha dato la caparra, la perde; - se recede quella che l’ha ricevuta, deve restituirne il doppio. Può, però, accadere che nessuna delle parti eserciti la facoltà di recesso, nel qual caso la caparra, non avendo svolto la sua funzione, va restituita, oppure imputata al corrispettivo del contratto. Sulla tassazione indiretta della caparra penitenziale, finora, non esisteva un indirizzo univoco, posto che essa non è contemplata espressamente dal DPR 131/86, a differenza della caparra confirmatoria che, invece, se apposta al preliminare è disciplinata dalla nota all’art. 10 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86. Tra le varie tesi prospettate, si ricordano le seguenti: - alcuni riconducono la caparra penitenziale al combinato disposto degli artt. 43 del DPR 131/86 e 9 della Tariffa, Parte I, allegata al medesimo decreto, con applicazione, quindi, dell’aliquota residuale del 3% dell’imposta di registro; - una seconda impostazione proponeva di adattare alla caparra penitenziale la disciplina della condizione sospensiva, applicando l’imposta di registro in misura fissa, ex art. 27 del DPR 131/86, per poi applicare l’imposta nella misura proporzionale solo al momento dell’eventuale esercizio del diritto di recesso; - una terza impostazione, proponeva di applicare alla caparra penitenziale l’aliquota dello 0,50% prevista dall’art. 6 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/86; - un ulteriore orientamento ritiene che alla caparra penitenziale vada applicata la disciplina individuata dall’art. 28 del DPR 131/86 che, nell’ultimo periodo del primo comma, dispone che “se è previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 6 o quella prevista dall’art. 9 della prima tariffa”. A questa ultima impostazione sembra aderire la Corte di Cassazione con la sentenza in commento. Innanzitutto la sentenza afferma che la caparra penitenziale, dal punto di vista civilistico, non rappresenta un negozio sospensivamente condizionato ma, anzi, un negozio da cui deriva immediatamente, proprio grazie al consenso delle parti, la costituzione del diritto potestativo di recesso. Passando al lato fiscale, la pronuncia rifiuta la possibilità di assimilare il trattamento impositivo della caparra penitenziale a quello della caparra confirmatoria, in ragione della “differenza strutturale e funzionale delle due clausole” e afferma, invece, la necessità di ricondurre la clausola penitenziale all’art. 28 del DPR 131/86, che disciplina la risoluzione, dato che lo scioglimento del contratto derivante dall’esercizio del diritto di recesso determina gli stessi effetti della risoluzione del contratto. Tale ultima norma prevede, come anticipato, che, ove sia previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale di registro prevista dall’art. 6 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86 o dall’art. 9 della medesima Tariffa. Applicando questa disposizione alla caparra penitenziale si deve, allora, concludere che: - ove, per effetto dell’esercizio del diritto di recesso, si verifichi lo scioglimento del contratto che contemplava la caparra penitenziale, sull’ammontare di essa è dovuta l’imposta di registro del 3% a norma dell’art. 9 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86; - ove, come avvenuto nel caso di specie, la caparra fosse stata corrisposta al contratto preliminare, si applica l’imposta di registro dello 0,5%, che l’art. 6 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86 prevede per le quietanze. Quindi, da un lato, la Suprema Corte conferma la tesi dell’Agenzia, che aveva richiesto l’imposta di registro del 3% sulla caparra penitenziale, ma dall’altro la smentisce in relazione al momento impositivo, affermando che questa imposta non si possa applicare alla registrazione del contratto che prevede la caparra ma solo al momento dell’esercizio di recesso. Così – precisano i giudici di legittimità – si può configurare “ma solo ed esclusivamente in un’ottica tributaria e non civilistica, la caparra [...] penitenziale come negozio sospensivamente condizionato, nel senso che l’applicazione del regime impositivo è condizionata all’esercizio del diritto di recesso e allo scioglimento del contratto”.