I diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro non si esauriscono nel risarcimento del danno, ma includono anche il diritto alla controprestazione, nel rispetto dei princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest’ambito un’essenziale funzione di tutela. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 29 del 28 febbraio 2019 è intervenuta in un giudizio in cui le censure del rimettente si appuntano sulla qualificazione in termini risarcitori dell’obbligo del datore di lavoro che non ottemperi all’ordine di riammettere il lavoratore nell’impresa, dopo l’accertamento della nullità, dell’inefficacia o dell’inopponibilità della cessione del ramo di azienda. IL FATTO La Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 del codice civile, per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Secondo la Corte rimettente le disposizioni limitano la tutela del lavoratore ceduto al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che abbia accertato l’illegittimità o l’inefficacia del trasferimento del ramo di azienda. Le disposizioni censurate, nell’interpretazione accreditata dal diritto vivente, sarebbero: - lesive del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) sotto un duplice profilo. Il giudice a quo ravvisa una «ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento» anzitutto rispetto alla disciplina della mora del creditore «in tutte le altre obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato»; in secondo luogo, rispetto alla disciplina delle conseguenze della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, per il periodo successivo alla sentenza che accerti tale nullità e converta il contratto a tempo determinato. In entrambe le ipotesi il creditore in mora non soltanto sarebbe obbligato a risarcire i danni prodotti, ma sarebbe pur sempre obbligato a eseguire la controprestazione; - in contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto la disciplina consentirebbe al cedente «di sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore»; - la violazione dell’art. 111 Cost., che «prevede la garanzia del “giusto processo”», inscindibilmente connessa con l’effettività della tutela; - la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto sacrificherebbe il diritto a un processo equo e, in particolare, il diritto «di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale, in omaggio al carattere prettamente strumentale dei rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare». LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Corte Costituzionale dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 1206, 1207 e 1217 del codice civile, sollevate dalla Corte d’appello di Roma, sezione lavoro, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La Corte rileva innanzi tutto che il giudizio verte sull’inadempimento di un datore di lavoro che non ha eseguito l’ordine giudiziale di riassunzione e ha rifiutato senza alcun legittimo motivo (art. 1206 cod. civ.) la prestazione ritualmente offerta dal lavoratore, nel rispetto dell’art. 1217 cod. civ. Il giudice a quo ritiene che la configurazione in senso risarcitorio dell’obbligo del datore di lavoro moroso sia lesiva del principio di eguaglianza, tanto in riferimento alla disciplina degli altri rapporti obbligatori quanto con riguardo alla disciplina della nullità dell’apposizione del termine. Nel rapporto di lavoro, a differenza che negli altri ambiti posti a raffronto, il creditore moroso sarebbe obbligato soltanto a risarcire i danni e non a eseguire la controprestazione. Nel merito, bisogna fare riferimento alla sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, pronunciata dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, la quale ha puntualizzato che la qualificazione risarcitoria dell’obbligazione del cedente si fonda sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro. Alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto alla retribuzione sorge soltanto quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa. In caso contrario, sussiste, in capo al datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno. Una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione. I diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro non si esauriscono nel rimedio risarcitorio, ma includono anche il diritto alla controprestazione, in consonanza con i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest’ambito un’essenziale funzione di tutela. L’interpretazione della Corte di cassazione assunta come diritto vivente, indica l’inapplicabilità della disciplina in favore dei dipendenti del datore di lavoro cedente per il periodo successivo alla sentenza che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento, persistendo solo un obbligo da inadempimento [ex art. 1218 cod. civ.], ovvero applicabilità della disciplina limitata al riconoscimento di un obbligo risarcitorio da mora credendi [ex art. 1207 cod. civ.] in capo al cedente per gli eventuali danni patiti dai dipendenti, sia per il periodo anteriore sia per quello successivo alla suddetta sentenza.