La normativa sulla “voluntary disclosure” prevede uno specifico illecito penale relativo all’esibizione di atti falsi e comunicazione di dati non rispondenti al vero nell’ambito del relativo procedimento di collaborazione volontaria. Si tratta di un reato inserito dalla L. 186/2014 nell’art. 5-septies del 167/1990 convertito volto a garantire il corretto svolgimento della procedura di collaborazione volontaria attraverso la consegna all’autorità finanziaria di tutti i dati e le notizie rilevanti ai fini della individuazione del regime fiscale applicabile e, quindi, della determinazione dell’esatto ammontare degli imponibili. Così la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2559 depositata il 22 gennaio 2024, ha confermato la condanna alla reclusione di tre anni nei confronti di un soggetto imputato per aver fornito dati e notizie non corrispondenti al vero nell’ambito dell’intrapresa procedura di collaborazione volontaria per l’emersione di attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute all’estero ai sensi dell’art. 5-quater del citato decreto. La Suprema Corte si era già pronunciata riguardo al sequestro preventivo relativo al medesimo procedimento, delineando le caratteristiche del reato in questione. Nella sentenza in commento viene precisato innanzitutto che, se la formazione o trasmissione di atti e documenti o, comunque, la comunicazione di dati e notizie è compiuta per il tramite di un professionista che assiste il contribuente nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria, la condotta è comunque a quest’ultimo attribuibile. Tanto che, a norma dell’art. 5-septies del DL 167/1990, egli deve rilasciare al professionista “una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con la quale attesta che gli atti o documenti consegnati per l’espletamento dell’incarico non sono falsi e che i dati e notizie forniti sono rispondenti al vero”. Quanto all’oggetto degli obblighi dichiarativi e informativi che in caso di mendacio determinano la penale responsabilità, l’individuazione va rapportata al contenuto del richiamato art. 5-quater del citato decreto, con particolare riferimento all’obbligo (comma 1 lett. a) di fornire i documenti e le informazioni per la determinazione dei redditi che servirono per costituire o acquistare investimenti o attività finanziarie detenute all’estero, nonché dei redditi che derivano dalla loro dismissione o utilizzazione a qualunque titolo, unitamente ai documenti e alle informazioni per la determinazione degli eventuali maggiori imponibili agli effetti delle imposte sui redditi e relative addizionali, delle imposte sostitutive, dell’imposta regionale sulle attività produttive, dei contributi previdenziali, dell’imposta sul valore aggiunto e delle ritenute, non connessi con le attività costituite o detenute all’estero, relativamente a tutti i periodi d’imposta per i quali, alla data di presentazione della richiesta, non sono scaduti i termini per l’accertamento o la contestazione della violazione degli obblighi di dichiarazione. Trattandosi di una condotta riconducibile alla falsità ideologica, vengono richiamate quelle interpretazioni giurisprudenziali secondo cui il reato sussiste quando chi è tenuto a rendere informazioni su fatti o situazioni ovvero a darne una fedele rappresentazione renda informazioni ovvero esponga una rappresentazione in termini incompleti e soltanto parziali, tacendo dati la cui omissione è rilevante ai fini dell’economia dell’atto, essendo penalmente irrilevanti soltanto quelle omissioni del tutto irrilevanti rispetto alla finalità dell’atto (cfr. Cass. n. 29910/2022 e Cass. n. 44366/2021 in tema di reddito di cittadinanza). Fra i dati e le notizie rilevanti ai fini della “collaborazione volontaria” sono ricomprese – secondo la Cassazione – anche le circostanze fattuali necessarie ai fini della individuazione del regime fiscale applicabile, e, quindi, della determinazione dell’esatto ammontare degli imponibili, essendo in tale ambito inclusi i dati concernenti la disponibilità di società-schermo nel medesimo settore di attività in cui si collocano le operazioni oggetto della procedura. Nel caso di specie, dunque, il contribuente non è stato ritenuto penalmente responsabile per aver argomentato, attraverso il suo professionista, la asserita qualità di collezionista piuttosto che di mercante d’arte, ma per aver, da un lato, falsamente rappresentato e, d’altro lato, totalmente taciuto importanti elementi di fatto che costituiscono elementi indiziari indispensabili per attestare lo svolgimento o meno di un’attività professionale suscettibile di generare reddito imponibile, essendo perfettamente consapevole di essere un mercante piuttosto che un collezionista. Viene qui in particolare contestata “la simulazione, in sede di voluntary disclosure, di essere animato da meri interessi culturali nelle compravendite di opere d’arte effettuate nel periodo considerato, dissimulando l’evidente intento di business e la professionale attività volta a generare profitti”.