Una recente pronuncia della Cassazione (Cass. 15 maggio 2023 n. 13181) offre lo spunto per tornare sul tema della deducibilità dei compensi degli amministratori. La questione è nota e l’orientamento della giurisprudenza è consolidato: in assenza di una previsione statutaria o di una preventiva delibera assembleare, i compensi pagati agli amministratori sono indeducibili per la società. In passato, soprattutto nel caso di società a ristretta base proprietaria di natura famigliare, tale adempimento veniva a volte trascurato, rinviando al momento dell’approvazione del bilancio la definizione dei compensi. Secondo la Cassazione, il compenso pagato senza una preventiva delibera “non può in alcun modo ricondursi alla volontà dell’assemblea il che, sotto il profilo tributario, si riverbera sulla indeducibilità del costo per difetto dei requisiti di certezza e determinabilità di cui all’art. 109 TUIR: la mancanza di una delibera specifica sui compensi comporta, sul piano civilistico, la nullità dell’atto di autodeterminazione del compenso da parte degli amministratori, sul piano fiscale, la non deducibilità del compenso” (Cass. n. 5763/2021). A nulla rileverebbe l’argomento di segno contrario secondo cui i principi di certezza e obiettiva determinabilità dell’ammontare sanciti dall’art. 109 comma 1 del TUIR non dovrebbero riguardare quei componenti per i quali la normativa tributaria prevede l’applicazione del principio di cassa, come previsto dall’art. 95 comma 5 del TUIR per i compensi spettanti agli amministratori. Per la Corte, infatti, in tema di compensi agli amministratori, il criterio di cassa dovrebbe essere “conciliato” con i principi civilistici sanciti dalle Sezioni Unite (Cass. n. 21933/2008) in base ai quali è necessario che la determinazione del compenso sia legata a una delibera assembleare, con data antecedente all’erogazione, che ne determini l’ammontare. La citata ordinanza n. 13181/2023 merita attenzione in quanto la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul silenzio rifiuto di una richiesta di rimborso dell’IRPEF versata sui compensi non deliberati per i quali la società in adesione aveva acconsentito all’indeducibilità. Quindi oggetto del contenzioso non era l’indeducibilità dei compensi in capo alla società, quanto piuttosto il diritto dell’amministratore a vedersi rimborsare le imposte versate su un compenso nullo. La Cassazione ha ribadito il principio secondo cui l’indeducibilità del compenso in capo alla società, a fronte della tassazione dello stesso in capo all’amministratore, non integra un’ipotesi di doppia imposizione giuridica ex art. 163 del TUIR in quanto il presupposto della tassazione è diverso (confermando quanto affermato dalla sentenza n. 4400/2020 relativa però all’indeducibilità dei compensi). Pertanto, l’amministratore non ha diritto al rimborso dell’IRPEF versata sui compensi percepiti qualora gli stessi siano stati ripresi a tassazione in capo alla società. L’approdo della Cassazione, dal momento che il motivo del ricorso si fonda sulla doppia imposizione, non sembra superabile. Forse i giudici avrebbero potuto pervenire a conclusioni diverse se si fosse eccepito che la nullità del compenso (con correlato obbligo di restituzione) fa venire meno il presupposto impositivo in capo all’amministratore. Ad ogni modo, proprio partendo da quest’ultima osservazione, il cortocircuito “indeducibilità-imposizione” potrebbe essere superato se la società richiedesse la restituzione del compenso “indebitamente” percepito all’amministratore e questo, a seguito di transazione, decidesse di acconsentire. In tal caso, infatti, la somma ricevuta non sarebbe tassabile in capo alla società, posto che si tratterebbe della sopravvenuta insussistenza di un costo tassato (e, quindi, non dedotto in precedenti esercizi). In capo all’amministratore troverebbe, invece, applicazione l’art. 10 comma 1 lett. d-bis) del TUIR, ai sensi del quale le somme restituite al soggetto erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti, costituiscono oneri deducibili dal reddito complessivo (c.d. restituzione al “lordo” delle ritenute). Tale disposizione, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate (circ. n. 8/2021) riguarda tutti i redditi tassati secondo il criterio di cassa, indipendentemente dalla modalità di tassazione. Qualora, invece, le somme fossero restituite dall’amministratore al “netto” delle ritenute subite, troverebbe applicazione l’art. 10 comma 2-bis del TUIR, il quale dispone testualmente che le somme restituite al soggetto erogatore “se assoggettate a ritenuta, sono restituite al netto della ritenuta subita e non costituiscono oneri deducibili”. In tal caso, tuttavia, alla società spetterebbe un credito d’imposta stabilito forfetariamente ex lege nella misura del 30% delle somme ricevute (cfr. art. 150 comma 2 del DL 34/2020). Il rimedio prospettato sembra attuabile solo quando vi è identità tra soci e amministratori. Tuttavia, considerata la latitanza del legislatore e l’improbabilità di un revirement giurisprudenziale, tale rimedio sembra, allo stato attuale, l’unico percorribile al fine di mitigare gli effetti fiscali derivanti dalla pretesa indeducibilità del compenso in capo alla società.