Il contratto a tempo determinato definisce un legame contrattuale tra il datore di lavoro e un dipendente che resta valido per un periodo di tempo predefinito, senza che sia possibile il recesso anticipato rispetto alla data stabilita, al netto del ricorrere di una giusta causa di recesso (art. 2119 c.c.). Si tratta infatti di un impegno reciproco che lega le parti sottoscriventi: il datore di lavoro garantisce un periodo di impiego retribuito, il lavoratore lo svolgimento della prestazione dedotta in contratto fino a scadenza dello stesso. Cosa accade se il termine individuato in origine si rivela inadeguato per una o entrambe le parti? Proroga e prosecuzione di fatto del contratto Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto è inferiore a 24 mesi e, comunque, per un massimo di 4 volte nell'arco di 24 mesi, a prescindere dal numero dei contratti. La proroga può avvenire però liberamente nei primi 12 mesi e, successivamente, solo in presenza delle medesime causali che legittimano la sottoscrizione di un contratto a termine. La normativa vigente regola, altresì, le ipotesi di prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine, prevedendo che in tali casi il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo e al 40% per ogni giorno ulteriore. Questa prosecuzione di fatto non impone alcun adempimento in termini di UNILAV ma occorre fare attenzione alla sua durata: è infatti prevista la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato nel caso in cui il rapporto di lavoro continui: - oltre il 30° giorno, per i contratti di durata inferiore a 6 mesi; - oltre il 50° giorno, negli altri casi. Recesso anticipato per giusta causa Si configura legittimamente l’ipotesi di una giusta causa di recesso laddove: - il datore di lavoro abbia contestato, sulla base di fatti comprovabili, una condotta del lavoratore talmente grave da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario; - il lavoratore subisca una delle condizioni o azioni individuate dalla normativa di riferimento e dalla giurispudenza, tra cui ad esempio il mancato pagamento delle retribuzioni o del versamento della contribuzione obbligatoria, un ingiustificato demansionamento, condotte discriminatorie o mobbing. N.B. Nel tempo, la giurisprudenza ha di fatto escluso il legittimo recesso anticipato da un contratto a termine per ragioni diverse dalla giusta causa, non potendo trovare applicazione nemmeno il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non essendo la riorganizzazione dell’assetto produttivo dell’impresa una circostanza idonea a risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato. Resta invece ferma la possibilità di risolvere consensualmente il rapporto. Recesso anticipato da parte del datore di lavoro Se a recedere senza giusta causa è il datore di lavoro, il danno subito dal lavoratore viene individuato in via equitativa dal giudice e spesso quantificato nell’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dalla data del recesso fino alla scadenza del termine contrattualmente previsto (Trib. Roma, 28 settembre 2020, n. 4817). La giurisprudenza ha infatti individuato nella garanzia reddituale rappresentata dalle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito per la residua durata del contratto un parametro utile a risarcire sia il danno emergente (reddito che il lavoratore perde nel momento in cui il datore recede anticipatamente senza una giusta causa) che il lucro cessante (mancato guadagno provocato dal recesso illegittimo). Recesso anticipato da parte del lavoratore Nel caso di recesso anticipato del lavoratore privo di giusta causa (ad esempio, in caso di dimissioni volontarie per cambio di attività lavorativa o per ragioni personali), il datore di lavoro deve provare la sussistenza di un danno, dimostrando che l’interruzione improvvisa e anticipata del rapporto da parte del lavoratore ha causato un danno all’organizzazione produttiva (ad esempio, costi di formazione sostenuti, costi di selezione per la scelta del lavoratore e poi per la sua sostituzione, oppure, per casi di alta specializzazione, pregiudizio causato ad un cliente dal recesso illegittimo). Per quanto riguarda poi la quantificazione del danno subito, il datore di lavoro deve dimostrare l’ammontare del danno, che altrimenti viene di norma individuato nell’importo dell’indennità di preavviso prevista per il contratto a tempo indeterminato, che è stato più volte dalla giurisprudenza ritenuto criterio equo di liquidazione del danno. Risoluzione consensuale Come detto, una modalità conciliativa per le parti di modifica della durata del contratto a termine consiste nella risoluzione consensuale che, tuttavia, in linea generale determina in capo al lavoratore il mancato diritto alla NASpI, poiché in questo caso non sussiste il requisito della perdita involontaria del posto di lavoro, essendo il lavoratore stesso a prestare il proprio consenso alla cessazione del rapporto. A fronte di una risoluzione consensuale il diritto alla NASpI permane solo in caso di: - risoluzione consensuale avvenuta con accordo sottoscritto presso l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (art. 7, Legge 15 luglio 1966); - rifiuto di trasferimento presso altra sede aziendale distaccata e dislocata ad almeno 50 Km dalla propria residenza, e/o che comunque non sia raggiungibile in meno di 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblico (accettazione dell’offerta di conciliazione di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015, proposta dal datore di lavoro entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento).