Le donazioni, dirette o indirette, implicano lo spirito di liberalità. Pertanto, non è possibile presumere che la differenza tra la pensione percepita dalla defunta madre e le somme necessarie al suo mantenimento ed alla sua cura, configuri donazione operata dalla madre a favore della figlia che con lei ha convissuto per più di 20 anni. L’esistenza della donazione implica, infatti, la prova che l’elargizione sia stata operata esclusivamente per spirito di liberalità. Lo afferma la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 18814 depositata il 4 luglio 2023. IL FATTO Nel caso di specie, alla morte della madre, due dei suoi figli facevano causa alla sorella, lamentando la lesione della propria quota di legittima, per effetto delle donazioni da questa ricevute in vita dalla madre, durante la convivenza tra le due donne, durata ben 24 anni. In particolare, le pretese dei due fratelli si basavano su questo ragionamento: determinati (mediante CTU nominato in primo grado) i redditi pensionistici percepiti dalla madre, si sottraevano ad essi le somme stimate necessarie per il suo sostentamento, calcolate tenendo conto delle buoni condizioni di salute della donna e della “sobrietà delle condizioni di vita della medesima”. La restante parte, secondo i fratelli ricorrenti, configurava “plurime donazioni” elargite dalla madre a favore della figlia nel corso dei 24 anni di convivenza. Quindi, secondo la stima propugnata dai due fratelli, tenuto conto dello stile di vita della donna, solo il 60% dei redditi pensionistici percepiti dalla madre sarebbe stato da questa destinato al proprio mantenimento, sicché si poteva presumere che il restante 40% (non essendo stato reperito sui conti correnti della defunta, né elargito mediante altre donazioni) fosse stato donato alla figlia convivente (sorella dei ricorrenti) mediante “plurime donazioni” che gli altri fratelli ritenevano lesive della quota di legittima loro spettante. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Cassazione boccia la tesi dei fratelli, avallata dai giudici di merito, e accoglie il ricorso della figlia convivente, la quale sosteneva che la convivenza tra lei e la madre escludesse “ontologicamente la configurabilità di una donazione, atteso che gli apporti dei conviventi, lungi dal costituire donazioni, si concretano in conferimenti vicendevoli”. Nell’argomentare, la Suprema Corte parte dalle norme in tema di collazione, ricordando che, al fine di individuare correttamente la massa ereditaria da dividere, i figli (tra gli altri, ex art. 737 c.c.) devono conferire in collazione quanto ricevuto per donazione, diretta o indiretta, durante la vita del de cuius. Sono espressamente escluse dalla collazione, ai sensi dell’art. 742 c.c., “le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, [...] quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze”, e le liberalità d’uso. Ciò dimostra – argomentano i giudici di legittimità – che l’obbligo di collazione si fonda sul presupposto che il coerede abbia ricevuto beni o diritti a titolo di liberalità dal defunto “direttamente o indirettamente tramite esborsi effettuati da quest’ultimo”. Pertanto, è vero che, in linea di principio, anche gli esborsi effettuati per un altro soggetto possono configurare donazione, ma è indispensabile che vi sia lo spirito di liberalità. Per questo motivo, non sono soggette a collazione né a riduzione le attribuzioni patrimoniali senza corrispettivo operate a favore di persona convivente (a meno che non sia accertato che le stesse siano state poste in essere per spirito di liberalità “e, cioè, con la consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario” e non, invece, per adempiere alle varie obbligazioni che possono nascere dalla convivenza. Invece – aggiunge incidentalmente la Cassazione – non sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte da un genitore ad un figlio, posto che l’art. 738 c.c. delinea sul punto un’eccezione operante solo per il coniuge. Alla luce di tali principi, il ragionamento della Corte d’Appello non viene ritenuto corretto dalla Cassazione: - accertato che la defunta percepisse 1.000 euro di pensione al mese, che avesse uno stile di vita “estremamente modesto” e che essa partecipasse alle spese della figlia convivente; - se ne desume che 600 euro al mese fossero dalla defunta destinati al proprio mantenimento e i restanti 400 euro mensili, quindi, siano stati “incassati” dalla figlia convivente “dando luogo ad un complesso di donazioni lesive della quota di riserva”. In questo ragionamento, mancano gli elementi di gravità e concordanza necessari a desumere da alcuni fatti noti il fatto ignoto (le donazioni di 400 euro mese alla figlia), posto che la convivenza più che ventennale tra l’anziana madre e la figlia rende altrettanto normale ipotizzare l’adempimento di obbligazioni nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale. Infine, per poter sostenere l’esistenza di un complesso di donazioni, presuntivamente desunte dalla differenza tra l’importo lordo dei redditi percepiti da un soggetto e quanto si stima forfetariamente possa essere congruo per le sue esigenze di vita, è indispensabile accertare lo spirito di liberalità “che avesse assistito ogni dazione di denaro dalla madre alla figlia convivente”.