Il convivente more uxorio non può essere inquadrato quale collaboratore o coadiuvante familiare. Questo è quanto chiarito dall’Ispettorato del lavoro (INL) che, con il parere n. 879/2023, allineandosi alla lettera circolare dell’INPS n. 66/2017, ha preso posizione sulla possibilità di estendere alle convivenze di fatto gli effetti giuridici sul piano lavoristico riconosciuti ai collaboratori e coadiuvanti familiari. La questione posta all’attenzione dell’Ispettorato va letta alla luce di quanto normativamente previsto dalla L. 76/2016, senza dimenticare, tuttavia, in un contesto in continua evoluzione, anche i più recenti orientamenti della giurisprudenza, da sempre sensibile all’evoluzione sociale dell’ordinamento giuslavoristico. Si ricorda che la collaborazione familiare è prevista per le ipotesi di prestazioni lavorative rese in modo occasionale dal familiare entro il terzo grado di parentela ed entro il secondo grado di affinità. Dette prestazioni, secondo quanto chiarito dal Ministero del Lavoro con le note nn. 10478/2013 e 14184/2013, sono escluse dall’obbligo di iscrizione INPS, se svolte entro le 720 ore all’anno (pari a 90 giorni), e dall’obbligo di assicurazione INAIL, ove svolte in modo non ricorrente ma meramente accidentale (ossia, inferiori ai 10 giorni nell’anno solare). Inoltre, se il familiare lavora in modo stabile e continuo nell’impresa familiare acquisisce la denominazione di coadiuvante. Il presupposto ai fini del riconoscimento dello status di collaboratore o coadiuvante familiare sembra, quindi, essere quello di un rapporto di parentela tra le parti, che può discendere, oltre che per ragioni di sangue (genitori, figli e fratelli), anche da un vincolo di matrimonio. A questo punto, proprio alla luce delle disposizioni introdotte dalla L. 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulla disciplina delle convivenze, ci si è chiesti se una collaborazione familiare può sussistere anche tra conviventi di fatto, non legati da vincolo di matrimonio né, ovviamente, di parentela. In merito, l’INL ricorda, innanzitutto, quanto già stabilito dall’INPS con la citata lettera circolare n. 66/2017. L’Istituto, attenendosi al dettato normativo, contenuto nella L. 76/2016, traccia una linea di demarcazione in termini di effetti giuridici tra quanto previsto per le unioni civili rispetto alla differente disciplina riservata alle convivenze more uxorio. L’INPS evidenzia, infatti, che, in ragione dell’art. 1 comma 20 della L. 76/2016, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e, altresì, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. In tal senso, pertanto, qualsiasi disposizione normativa, regolamentare o amministrativa, che contenga la parola “coniuge”, deve intendersi riferita anche a ognuna delle parti dell’unione civile, con la conseguenza che, ai fini dell’individuazione dei soggetti che svolgono attività lavorativa in qualità di collaboratori del titolare d’impresa, subordinata allo status di coniuge, possono essere ricompresi anche gli appartenenti alle unioni civili, registrate ai sensi di legge e comprovate da una dichiarazione sostitutiva della dichiarazione di cui all’art. 1 comma 9 della L. n. 76/2016 e all’art. 7 del DPCM n. 144/2016. Diversamente, secondo la L. 76/2016, le convivenze di fatto consistono in unioni stabili tra due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. La normativa, inoltre, estende al convivente alcune tutele, espressamente indicate, riservate al coniuge o ai familiari, ad esempio in materia penitenziaria, sanitaria, abitativa, ma non introduce alcuna equiparazione di status. Da ciò discende che, non avendo il convivente di fatto lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, lo stesso non può essere inquadrato quale prestatore di lavoro soggetto a obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare. L’Ispettorato, tuttavia, nel conformarsi a quanto sopra espresso dall’INPS, lascia comunque aperta la strada per una possibile nuova linea interpretativa di natura giurisprudenziale (allo stato, solo futura e non operativa). La nota ricorda, infatti, come la Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, abbia rimesso alle Sezioni Unite la possibilità di interpretare l’art. 230-bis comma 3 c.c., sull’impresa familiare, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità.