La condotta datoriale consistente nella costrizione del dipendente ad accettare condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi integra gli estremi del reato di estorsione di cui all’art. 629 c.p. Tale principio è stato nuovamente affermato dalla Corte di Cassazione n. 27107/2023, che si è pronunciata sulla vicenda riguardante la condotta posta in essere dal datore di lavoro che, insieme al proprio commercialista, ha costretto una dipendente a firmare quattro quietanze di avvenuto pagamento del TFR, in realtà mai corrispostole, dietro minaccia di farle perdere definitivamente il posto, giacché il rapporto lavorativo, cessato con la precedente società (in liquidazione), avrebbe dovuto proseguire con la nuova società (appena creata). IL FATTO I giudici di entrambi i gradi di merito condannavano per estorsione sia il datore di lavoro che il commercialista; nello specifico, la Corte territoriale, a seguito di un puntuale vaglio delle fonti di prova, ravvisava gli estremi della condotta estorsiva con la precisazione che il contributo materiale era stato consapevolmente realizzato dal professionista, che veniva indicato quale ideatore dell’operazione criminosa – dal medesimo successivamente sottoposta al datore di lavoro – incidendo, direttamente e personalmente, sulla libertà di autodeterminazione della vittima per costringerla a firmare le quietanze di pagamento. In particolare, i giudici dell’appello evidenziavano che la sottoscrizione delle quietanze di pagamento, prospettata come unica alternativa dal professionista, si era, in concreto, risolta in un pregiudizio diretto e immediato per la lavoratrice, la quale non aveva avuto modo di scegliere liberamente, poiché costretta a soggiacere alla posizione di preminenza del datore di lavoro onde evitare di perdere definitivamente il posto. Confermata in appello la condanna per estorsione, il professionista ricorreva, quindi, per cassazione impugnando la pronuncia per ritenuta illogicità della motivazione (per asserita assenza del “male ingiusto” prospettato alla lavoratrice così come richiesto dalla fattispecie penale) e vizio di motivazione (nello specifico, per omessa motivazione in merito all’elemento soggettivo del reato, a suo avviso non dimostrato). Inoltre, il ricorrente censurava la sentenza impugnata in punto pena e, più in particolare, in relazione alla sussistenza della circostanza aggravante delle più persone riunite. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Suprema Corte ha condiviso le conclusioni espresse nella pronuncia gravata, giacché immuni da vizi logici e giuridici, oltre che conformi ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità consolidata in materia, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di estorsione, sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo. Pertanto, per valutare se una condotta sia minacciosa e idonea a integrare l’elemento strutturale oggettivo del delitto di estorsione, occorre considerare le concrete circostanze oggettive che connotano il fatto: tra queste, la personalità sopraffatrice dell’agente, le circostanze ambientali ove questo opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, non rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione del soggetto passivo. La Cassazione sottolinea quindi che pone in essere una condotta estorsiva il datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata del licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate. Invece, per quanto concerne la circostanza aggravante speciale ex art. 629 comma 2 c.p. delle più persone riunite, la Corte di legittimità ha accolto il ricorso, in quanto tale aggravante richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento della realizzazione della violenza o della minaccia: nel caso di specie, invece, era emerso che il commercialista concorrente nel reato non era presente al momento in cui sono state concretamente poste in essere le minacce. La Suprema Corte ha, dunque, annullato la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante in parola, rinviando alla Corte d’Appello per nuovo giudizio su tale aspetto.