L'accertamento della commissione di reati concernenti l’evasione dell’IVA, non può basarsi esclusivamente su dati indiziari né possono utilizzarsi, a discolpa, costi sostenuti ma non registrati, in quanto si tratta di un’imposta collocata in un cosiddetto sistema chiuso che prevede la tracciabilità di tutte le fatture. A tal fine, come chiarito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 26196 del 13 giugno 2019, occorrono prove certe, a supporto delle quali vi può essere lo scostamento rispetto al dato risultante dall’applicazione degli studi di settore. IL FATTO Un contribuente era indagato per aver commesso il reato di omessa dichiarazione, previsto dall’art. 5 del DLgs. 74/2000. Secondo gli inquirenti l’uomo, nella qualità di legale rappresentante di una società operante nel settore del commercio di prodotti ittici, al fine di evadere le imposte aveva omesso di presentare la dichiarazione IVA, pur risultando maggiore imposta evasa per un valore di gran lunga superiore alla soglia dei 50.000 euro, prevista dalla norma violata. Nei due gradi di giudizio l’imprenditore era condannato e a supporto della contestata evasione il giudice di appello rilevava anche le risultanze emergenti dall’applicazione degli studi di settore. La difesa ricorreva in Cassazione lamentando in sintesi che la condanna era fondata su meri indizi e, la percentuale di ricarico applicata era calcolata su elementi opinabili. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. In via preliminare, i giudici di legittimità, richiamando un consolidato orientamento, asseriscono che la verifica dell’effettiva configurabilità dei reati in materia di IVA, nonché della determinazione della base imponibile e della conseguente imposta evasa, è effettuata soltanto sulla base di costi effettivamente documentati. La ragione, prosegue la Corte, risiede nella natura dell’imposta in questione: questa è tecnicamente collocata in un regime chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali. Tutti i costi effettivi non registrati, quindi, saranno irrilevanti. Nel caso di specie la responsabilità dell’imputato è stata individuata su elementi certi quali: a) l’omessa dichiarazione delle imposte dirette e dell’Iva; b) i dati risultanti dalla documentazione contabile, dalla quale si evince che la società ha effettuato per l’anno oggetto di verifica la cessione dei prodotti sottocosto; mentre in quello precedente aveva effettuato una percentuale di ricarico dell’ 11%; c) la previsione degli studi di settore in riferimento al ricarico del 10% per le imprese operanti in quel segmento di mercato; d) l’incongruenza tra il conto della società risultante a saldo negativo ed i consistenti finanziamenti effettuati dai soci, risultanti non avere redditi ufficiali da giustificarli. È evidente che, chiosa la Corte, tutti questi elementi depongono a favore della sussistenza di vendite in nero con conseguente evasione dell’imposta. Da qui il rigetto del ricorso.