Il Fisco può dimostrare l’inesistenza oggettiva delle operazioni sulla base della dichiarazione, rilasciata dal curatore fallimentare della società che ha emesso le relative fatture, circa il mancato rinvenimento, in sede di inventario, di beni della società fallita, beni che, invece, secondo la formale rappresentazione delle fatture, avrebbero costituito l’oggetto delle operazioni contestate. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7235 del 14 marzo 2019. È ormai consolidato l’orientamento di legittimità per il quale, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, ovvero che sia mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere, e quindi, contesti anche l’indebita detrazione dell’Iva e la deduzione dei costi, ha l’onere di provare che l’operazione fatturata non è mai stata effettuata, indicando, a tal fine, elementi anche indiziari; a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, ma tale ultima prova non può consistere nell’esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cassazione 6865/2019, 26453/2018, 16437/2015; si veda anche per l’indetraibilità dell’Iva, Corte UE, cause C-459/17 e C-460/17). Peraltro, in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti, la rilevanza della buona fede deve essere sempre esclusa (Cassazione 6920/2017). La Suprema Corte ha anche stabilito che non c’è simmetria, né automatismo biunivoco, tra costi per acquisti inesistenti e ricavi dichiarati, sicché spetta al contribuente provare la specifica relazione di diretta afferenza tra i ricavi dichiarati di cui chiede la detassazione e i costi ritenuti inesistenti dal Fisco (Cassazione 19000/2018). Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte ha esaminato il caso di una Srl a cui il Fisco aveva notificato un accertamento, recuperando a tassazione costi ritenuti indeducibili e riprendendo l’Iva illegittimamente detratta in quanto afferenti gli uni e l’altra a fatture passive per operazioni oggettivamente inesistenti. Secondo i Giudici del Palazzaccio l’Amministrazione finanziaria aveva correttamente assolto l’onere probatorio su di essa gravante, dimostrando che il curatore fallimentare della società, che aveva emesso le fatture contestate, aveva dichiarato che, invero, non era stato rinvenuto alcun bene di proprietà della fallita, sicché quelle fatturate dovevano ritenersi operazioni inesistenti. Neppure assumeva rilevanza ai fini della prova contraria il fatto che la società avesse eccepito che i beni oggetto delle fatture d’acquisto contestate fossero poi stati rifatturati successivamente dalla Srl, atteso che - secondo la Suprema Corte - si trattava di beni facilmente reperibili sul mercato. Per di più, neanche aveva provato la contribuente che i pagamenti sarebbero avvenuti in contanti, come effettivamente era indicato nelle fatture stesse.