Un lavoratore che non ha mai avuto contestazioni disciplinari, non può essere licenziato solo perché pregiudicato, se i reati, anche se gravi, sono stati commessi molti anni prima dell’assunzione e anche la condanna è precedente. Un licenziamento per giusta causa, adottato solo per i precedenti penali ostacola, infatti, il reinserimento nella società dei condannati, che il nostro Stato promuove attraverso l’articolo 27 della Costituzione. La Cassazione ha così respinto il ricorso di una società contro la sentenza che la obbligava a reintegrare il dipendente, che guidava un mezzo per la raccolta dei rifiuti, pagandogli un’indennità risarcitoria. E questo perché la giusta causa di licenziamento in realtà secondo i giudici, “giusta” non era. La massima sanzione era scattata sulla base di una condanna che il lavoratore aveva riportato dieci anni prima dell’assunzione, per reati di mafia, che risalivano a 20 anni prima. La Suprema corte, pur sottolineando che si tratta di un reato particolarmente grave, valorizza il comportamento irreprensibile del dipendente per molti anni. Le azioni commesse al di fuori del lavoro e prima dell’assunzione - precisano i giudici - hanno un peso solo se possono riflettersi in qualche modo nell’attività prestata, tanto da ledere il rapporto di fiducia con il datore, e solo se la condanna c’è stata nel corso del rapporto. Circostanze che nel caso esaminato non c’erano. Gli Ermellini ricordano quanto affermato dalla Corte d’Appello in merito alla funzione rieducativa della pena, finalizzata al ritorno nella società del condannato. Per i giudici va garantito «il diritto anche del pregiudicato a reinserirsi nella società, espletando un lavoro onesto» mentre consentire di licenziare qualcuno solo perché pregiudicato, senza fare «valutazioni in ordine alla compromissione dei successivi adempimenti» significa impedire il suo reinserimento «che invece il nostro Stato propugna (articolo 27 della Costituzione)».