È illegittima perché eccessivamente restrittiva, sotto il profilo dei requisiti che deve possedere il datore di lavoro straniero, la procedura per l'emersione dal lavoro nero prevista dal cosiddetto "Decreto rilancio" emanato per fronteggiare la pandemia. La Corte costituzionale, sentenza n. 149 depositata il 18 luglio 2023, ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 103, comma 1, del Dl 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19M; convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77), nella parte in cui prevede che la domanda per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o stranieri possa essere presentata solo da datori di lavoro stranieri in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, invece che da datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. IL FATTO Il giudice rimettente era chiamato a decidere del ricorso per l'annullamento del provvedimento con cui la Prefettura di Genova – Sportello unico per l'immigrazione aveva rigettato la domanda di emersione (ai sensi dell'articolo 103, comma 1, del Dl n. 34 del 2020) del lavoratore perché il datore richiedente non era titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo. Tale previsione però contrasterebbe con l'articolo 3, primo comma, della Costituzione, in quanto prevede un requisito più stringente rispetto a quello previsto, in via generale dal TU immigrazione che consente a qualsiasi «datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante in Italia» di instaurare un rapporto di lavoro subordinato. Di diverso avviso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l'inammissibilità della questione, atteso il «cospicuo tasso di manipolatività» della pronuncia richiesta, che implicherebbe un «allargamento (non costituzionalmente obbligato) della platea dei datori di lavoro abilitati a presentare la domanda di emersione». LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Consulta ricorda che la disciplina ordinaria consente di instaurare un rapporto di lavoro subordinato con uno straniero a qualunque «datore di lavoro [...] straniero regolarmente soggiornante in Italia». Per cui la norma censurata risulta "manifestamente irragionevole, in quanto stabilisce un requisito di accesso alla procedura di emersione degli stranieri dal lavoro irregolare eccessivamente restrittivo". E ostacola la realizzazione degli obiettivi perseguiti dallo stesso legislatore, ossia la più ampia emersione del lavoro "nero". Non solo, il requisito del permesso di lunga durata "è arbitrario e irragionevole anche in considerazione delle specifiche finalità che la procedura di emersione del 2020 era destinata a soddisfare", e cioé «garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio del contagio da COVID-19 e favorire l'emersione di rapporti di lavoro irregolari». In conclusione, la norma censurata, riducendo eccessivamente la "platea" dei datori di lavori abilitati ad attivare la procedura di emersione compromette la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla norma, "attinenti tanto alla tutela del singolo lavoratore quanto alla funzionalità del mercato del lavoro in un contesto d'inedita difficoltà". La Consulta ha invece ritenuto inammissibile (sentenza n. 150 del 18 luglio 2023), per vizi nella domanda, la questione sollevata dal Tar Marche sempre dell'art. 103 del Dl n. 34 del 2020, commi 5 e 6 però, nella parte in cui non consente, nell'ipotesi di rigetto dell'istanza di emersione per difetto del requisito reddituale in capo al datore di lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Da una parte infatti il giudice a quo ha evocato un parametro manifestamente inconferente, considerato che "non viene in rilievo alcuna delega legislativa, avendo la norma censurata rinviato, per la sua attuazione, a un decreto ministeriale". Dall'altro ha invocato una norma di legge ordinaria (all'articolo. 17, commi 2 e 3, della legge n. 400 del 1988) "non già come norma interposta rispetto a un parametro costituzionale, bensì direttamente come parametro del giudizio di legittimità costituzionale". Infine con riguardo alla supposta violazione dell'articolo 3 Cost, con riferimento all'articolo 5, comma 11-bis, del Dlgs n. 109 del 2012, il quale, nel disciplinare una precedente procedura di emersione, prevedeva che, nei casi in cui la relativa domanda fosse rigettata «per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro», al lavoratore venisse rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione, la Consulta lamenta un deficit argomentativo nell'analogia col diverso caso in cui il datore di lavoro sia privo del requisito reddituale.