All’impugnabilità del diniego avverso la proposta di transazione fiscale è dedicata la circolare n. 1/2019 dell’UNGDCEC. Il documento analizza la natura di tale atto, l’impugnabilità (o meno) in via giudiziaria del diniego, ed il conseguente rapporto tra processo tributario e procedura concorsuale. Vengono affrontati i principali temi critici, cercando di individuare soluzioni rispettose del dato sistematico e delle stringenti esigenze temporali proprie del concordato preventivo. La circolare tiene in considerazione anche i mutamenti normativi apportati dal nuovo Codice della crisi d’impresa. L’atto impugnabile Stante l’odierna obbligatorietà della transazione in seno al concordato preventivo, essa non segue più un procedimento isolato e per l’effetto, tendenzialmente, non esiste più un atto autonomo di risposta dell’Amministrazione finanziaria, bensì un “non voto” in sede di adunanza dei creditori. Seguendo le ordinarie regole fissate per il voto dei creditori dall’art. 174 e ss. LF, anche il “non voto” da parte dell’Erario qualifica un “silenzio rifiuto” (un diniego tacito), non contenuto in qualsivoglia “atto” formalizzato. Proprio qui si innestano significativi profili di problematicità con le regole che governano il processo tributario. Infatti, il processo tributario muove dall’impugnazione di un atto che deve ricadere entro il numerus clausus recato dall’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992. Quest’ultima norma non enuncia esplicitamente il “diniego” (tacito o espresso) alla transazione: tuttavia l’ormai maggioritaria giurisprudenza e dottrina rimarcano la possibilità di interpretare estensivamente o analogicamente l’elencazione dell’art. 19, classificando un atto come impugnabile poggiando non tanto sul nomen iuris, ma quanto sulla corrispondenza della funzione e degli effetti di esso con i tipi già normativamente previsti. In tale ottica, appare ragionevole ricondurre il diniego de quo nell’alveo dell’art. 19, comma 1, lettera h), D.Lgs. n. 546/1992, che prevede come impugnabili “il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari”. Il diniego alla transazione è quindi impugnabile (ex multis: Cass. Civ., 4 novembre 2011, n. 22931 e n. 22932; CTP Roma, 1° dicembre 2017, n. 26135; CTP Milano, 14 febbraio 2014, n. 1541). Di talché, si potranno conseguire in via giudiziale gli effetti derivanti dall’accettazione della proposta di transazione fiscale, sia con riferimento alle modalità di manifestazione del diniego (tra i possibili vizi, spicca senz’altro l’eventuale difetto di motivazione dell’atto), sia in relazione ai fatti e agli elementi su cui si asside la decisione di respingere la proposta. Valutazione “nel merito” del diniego Quanto sin qui affermato parrebbe corroborato dalla novellazione che ha interessato l’art. 182-ter, laddove sono ora previsti due peculiari criteri, al fine di regolare la valutazione dell’Agenzia delle Entrate: (i) il criterio della comparazione fra il soddisfacimento dei crediti erariali previsto dalla transazione ed il soddisfacimento conseguibile mediante altre soluzioni e (ii) il criterio del divieto di trattamento deteriore dei crediti erariali rispetto a quelli assistiti da una causa di prelazione di grado inferiore e ai crediti chirografari. Ebbene, l’errata applicazione di questi criteri costituisce specifico motivo di impugnazione del rigetto della proposta di transazione fiscale, tale da comportare l’illegittimità di quest’ultimo. La CTP Roma n. 26135 del 1° dicembre 2017 ha confermato l'impugnabilità (avanti al giudice tributario) del diniego opposto alla transazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, laddove sia dimostrata la maggior convenienza della proposta transattiva, rispetto a quella meramente liquidatoria. Il tassello su cui fa leva il giudice romano è la relazione del professionista, dalla quale si deve evincere il valore di mercato dei beni o dei diritti su cui sussiste la causa di prelazione, e in definitiva la maggior appetibilità della proposta transattiva. La giurisdizione Secondo il Consiglio di Stato (14 luglio 2016, n. 4021), la giurisdizione sull’impugnazione spetta al giudice tributario, considerando che: (i) la discrezionalità dell’Erario di disporre del proprio credito non è agganciata all’esercizio del potere pubblico autoritativo; (ii) l’accettazione della proposta transattiva è condizionata a valutazioni di merito ed opportunità, sulle quali non è possibile un sindacato del giudice amministrativo; (iii) il debitore può accedere comunque al concordato preventivo anche laddove la transazione non sia accettata (sempre che, naturalmente, il voto erariale non risulti decisivo per la formazione delle maggioranze). In senso conforme, Cass., SS. UU., 14 dicembre 2016, n. 25632 (seppur con riguardo all’impugnazione del diniego a una proposta di transazione fiscale presentata ai sensi della normativa precedente, cioè dell’art. 3, comma 3, D.L. n. 138/2002), e CTP Roma 1° dicembre 2017, n. 26135. Termini per l’impugnazione Va chiarito il termine da cui far decorrere i 60 giorni per l’impugnazione del “diniego”. In caso di voto negativo espresso, laddove: (a) formulato in sede di adunanza, il termine decorre dalla data di quest’ultima; (b) formalizzato anticipatamente rispetto all’adunanza, il termine decorre dalla data in cui il contribuente ne ha preso effettiva conoscenza. In caso di silenzio rifiuto, come termine pare ragionevole essere assunto il ventesimo giorno successivo alla data dell’adunanza (cfr. art. 178, ultimo comma, LF). Effetti del diniego determinante e rimedi esperibili Il punto di caduta di quanto sin qui esposto è costituito dal caso di concordato preventivo ammesso, per la cui successiva omologazione sia determinante il voto dell’Agenzia delle Entrate: in caso di voto negativo, le implicazioni sul piano economico e sociale rischiano di essere significative (compromissione della continuità operativa, depauperamento del patrimonio aziendale, licenziamento dei dipendenti, etc.). Profili critici, questi, che necessitano di tempi rapidi di soluzione e che mal si conciliano con il processo tributario. Premesso che, relativamente al diniego impugnato, appare di non piana applicabilità la sospensione giudiziale contemplata nel processo tributario dall’art. 47, D.Lgs. n. 546/1992 (volta a “congelarne” gli effetti fino alla trattazione del merito), ancor più “a monte” resta comunque da definire il rapporto tra il giudizio concordatario/civile e quello tributario. In sintesi: il primo può essere sospeso in attesa dell’esito del secondo? Il problema è acuito dalla tendenziale lacunosità, nel procedimento concordatario, di strumenti espressi con i quali le parti possono far valere i propri diritti, sicché pare venire in rilievo la norma generale di cui all’art. 295 c.p.c. Nel caso dell’eventuale voto negativo e determinante, pare ben configurabile un nesso di pregiudizialità sostanziale (e non meramente processuale), se solo si pensa a quanto autorevolmente affermato dalla giurisprudenza (ex pluribus: Cass. Civ., 8 febbraio 2011, n. 3059; Cass. Civ., SS. UU., 19 giugno 2012, n. 10027; Cass. Civ., 25 giugno 2010, n. 15353; Trib. Pordenone, 18 marzo 2011; Corte App. Trieste, 18 luglio 2011), così da legittimare la sospensione ex art. 295 c.p.c.