Integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia più o meno esplicita di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate. La giurisprudenza penale ha più volte affermato tale principio, che viene ripreso anche dalla sentenza n. 7128 depositata il 16 febbraio 2024 dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. nn. 3724/2022 e 8477/2019). Tuttavia, nella pronuncia in commento si evidenzia altresì come vadano distinte le condotte sottostanti, verificando caso per caso se sussistano i presupposti per la responsabilità penale. L’art. 629 c.p. prevede, infatti, la punibilità per chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o a omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Innanzitutto va detto che il vantaggio del datore di lavoro non attiene comunque unicamente al risparmio di spesa, ma può essere realizzato anche tramite l’imposizione di formule contrattuali simulate o fittizie che ledano i diritti del lavoratore, ad esempio attraverso la sottoscrizione di buste paga riferite a somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate. D’altra parte, la minaccia estorsiva ha certamente natura multiforme, il cui tratto comune è l’idoneità della condotta nell’incutere timore e nel coartare l’altrui volontà. Va però considerato che la necessaria dipendenza dal male minacciato dalla volontà dell’agente impone di verificare, ove la minaccia abbia carattere omissivo, che rispetto al male prospettato l’agente abbia l’obbligo giuridico di impedirlo. È infine necessario il riscontro dell’effetto dannoso per la vittima, come conseguenza della mancata adesione alla richiesta effettuata. Alla luce di tutto ciò, il discrimine che segna il confine tra ipotesi di opportunistica ricerca di forza lavoro e condotte riconducibili al paradigma del delitto di estorsione è collegato – secondo i giudici di legittimità – all’esistenza o meno di un rapporto lavorativo già in atto, foss’anche solo di fatto o non conforme alle tipologie legali, perché solo in queste ipotesi può sussistere la pretesa del datore di lavoro di ottenere vantaggi patrimoniali, attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo concluso tra le parti, prospettando l’interruzione del rapporto medesimo (attraverso il licenziamento o l’imposizione delle dimissioni). In tal senso, non rileva, ai fini penali, la prospettazione agli aspiranti dipendenti dell’alternativa tra la rinuncia, anche parziale, alla retribuzione, o ad altre garanzie o prestazioni, e la perdita dell’opportunità di lavoro. Ciò infatti non arriva a integrare gli estremi della minaccia così come prevista dal codice penale, quale prospettazione di un male ingiusto, in quanto il mancato conseguimento di un’opportunità di impiego non incide direttamente in modo negativo sulla condizione reddituale di un soggetto. Può essere anche interessante notare come la Cassazione in passato avesse configurato il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) in relazione al profitto di una condotta simile (Cass. n. 25979/2018). Si trattava in quell’ipotesi della costrizione da parte degli amministratori di una società nei confronti dei lavoratori, mediante minaccia di non assunzione o di licenziamento, ad accettare retribuzioni inferiori a quelle risultanti dalle buste paga e a sopportare orari superiori a quelli contrattualmente stabiliti, dando vita a un ingiusto profitto sia per gli amministratori stessi, sia per la società.