Spesso accade che, in sede di controllo, le contestazioni rilevate dai militari della Guardia di Finanza, ma anche dall’Agenzia delle Entrate, si fondano su irregolarità fiscali commesse dal fornitore, il quale, nella maggior parte dei casi, non tiene la contabilità e non presenta le relative dichiarazioni. Il tutto senza dire nulla al cliente, il quale dovrà poi giustificare, con tutte le difficoltà del caso, che le operazioni effettuate sono state effettivamente eseguite. Il problema delle operazioni soggettivamente inesistenti è stato affrontato dalla Corte di Cassazione anche nell’ordinanza n. 21800 del 29 agosto 2019: la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento, sostenendo che, con riferimento all’onere probatorio gravante sul contribuente, non è sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti, ovvero, “quanto alla regolarità delle scritture ed alle evidenze contabili di pagamento”, di dati e circostanze facilmente falsificabili. Come già evidenziato, si pone il problema di come il cliente possa dimostrare, con documentazione, la “buona fede” nell’ambito di utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. Operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti È bene analizzare, in estrema sintesi, quando l’operazione viene considerata soggettivamente e/o oggettivamente inesistente. Le fatture soggettivamente inesistenti si riferiscono ad operazioni realmente eseguite, ma tra soggetti differenti rispetto a colui che risulta nel documento. In questi casi, però, il costo diventa deducibile perché effettivamente sostenuto e sempre se inerente all’attività dell’impresa. Al contrario, l’IVA non è detraibile, ma lo diventa se il contribuente/acquirente dimostra la buona fede, vale a dire la propria estraneità agli illeciti commessi dal fornitore. Sul punto, è bene evidenziare l’orientamento della Suprema Corte, che, con la sentenza n. 2405 del 29 gennaio 2019, ha confermato il principio secondo il quale “l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (in senso conforme Cass. sentenza n. 9851 del 20 aprile 2018). Le fatture oggettivamente inesistenti riguardano invece operazioni mai poste in essere. In questa ipotesi il costo è indeducibile e l’IVA indetraibile, in quanto si tratta di transazioni fittizie, per le quali manca il requisito della certezza. È dovere del contribuente dimostrare che l’operazione sia stata concretamente realizzata. Le indicazioni della Guardia di Finanza In risposta a un quesito attinente alle operazioni soggettivamente insistenti, la Guardia di Finanza ha precisato che il contribuente può dimostrare con documentazione la buona fede nell’ambito di utilizzo di dette operazioni. È stato chiesto quali sono i comportamenti del contribuente, volti a dimostrare la buona fede, nell’ipotesi di fornitore reperito su internet i cui prezzi sono concorrenziali relativamente ad un’attività esclusivamente commerciale senza magazzino. I militari premettono che, in merito alle citate operazioni, il diritto alla detrazione IVA può essere disconosciuto solo quando l’Amministrazione finanziaria dimostri, sulla base di elementi oggettivi, la conoscenza o la conoscibilità da parte del cessionario del coinvolgimento del cedente in un circuito di frode. Resta a carico del cessionario/acquirente provare di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo non era l’emittente della fattura, bensì un altro soggetto, e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto. A parere della Guardia di Finanza, in base a quanto richiesto dall’istante, il contribuente può assolvere l’onere probatorio posto a suo carico, dimostrando, mediante l’esibizione di e-mail, fax o lettere, che i rapporti sono intercorsi direttamente con l’impresa interposta o con soggetti alla stessa riconducibili. Inoltre (si ritiene questa la parte più importante della risposta), il contribuente potrà provare di aver preso tutte le precauzioni possibili e preventive necessarie a verificare - per quanto consentito e senza poter pretendere un dovere d’indagine - la “regolarità” dell’operatore con cui ha intrattenuto i rapporti commerciali, fornendo ai verificatori, ad esempio, documentazione comprovante l’iscrizione al registro delle imprese tenuto dalle Camere di Commercio sull’esistenza e l’effettiva operatività del fornitore, la qualifica del soggetto con cui ha trattenuto i rapporti e la sua riconducibilità all’impresa indicata in fattura. Riflessioni La risposta viene “salutata” con favore, visto l’indirizzo tranciante della Suprema Corte, che, sull’argomento, ha sempre sostenuto che, per poter dedurre il costo e detrarre l’IVA, il contribuente ha l’onere di provare che non era a conoscenza della frode messa in atto dal fornitore di beni o servizi. Intanto, l’indicazione della documentazione da produrre al fine di provare che l’operazione sia stata realmente eseguita, è di estrema importanza, perché permette agli operatori commerciali di fornirsi preventivamente di documenti che potranno essere utili in fase di controllo. Di particolare pregio è poi la puntualizzazione riguardante la mancanza del dovere di indagine da parte del contribuente. In realtà, spesso, è ardua impresa capire se esiste o meno l’attività svolta da colui che vuole frodare il Fisco. È vero che esistono delle imprese compiacenti, tuttavia è altrettanto innegabile che non tutti gli operatori commerciali sono “collusi” con chi gestisce la frode. Si spera solo che, quanto sopra affermato, venga realmente applicato in sede di verifica, prendendo in considerazione la documentazione prodotta dal contribuente interessato che giustifichi l’operazione eseguita.