La detenzione di pochi grammi di stupefacente (6 grammi di eroina) non genera quel disvalore sociale tale da giustificare il licenziamento del dipendente trovato in possesso della modica quantità di droga. Lo precisa la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12306 del 7 maggio 2024. IL FATTO La Corte d'Appello di Bologna, in riforma di sentenza del Tribunale di Forlì, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, dichiarava risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannava la società a pagare al dipendente un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, oltre indennità di mancato preavviso e accessori. La Corte distrettuale, in particolare: - osservava che il lavoratore, assunto come apprendista operaio il 4.4.2016, era stato licenziato il 12.9.2016 a seguito di procedimento disciplinare in cui gli era stato contestato che il 19.8.2016, in occasione di controllo stradale eseguito dai Carabinieri, sul suo veicolo erano stati rinvenuti sei grammi di eroina con conseguente denuncia per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio; - riteneva che non vi fosse prova del fine di spaccio, tenuto conto del decreto di archiviazione del GIP del Tribunale di Forlì in data 12.1.2017, in cui si affermava l'infondatezza della notizia di reato, in quanto la sostanza stupefacente sequestrata era da ritenersi per uso personale; - escludeva la prova di danno all'immagine dell'azienda a seguito della pubblicazione della notizia su quotidiano a diffusione locale, perché avvenuta senza indicazione delle generalità del lavoratore e del datore di lavoro; - valutava la gravità del fatto non tale da giustificare la sanzione disciplinare espulsiva per definitiva lesione del vincolo fiduciario; - dato atto dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, applicava la disciplina di cui all'art. 9 d.lgs. n. 23/2015 (anche tenuto conto della dichiarazione di illegittimità costituzionale del comma 1 dell'art. 3 di tale d.lgs.) e si atteneva ai parametri risarcitori minimi, atteso il limitato periodo di durata del rapporto di lavoro. Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione respinge il ricorso. Preliminarmente, gli Ermellini ribadiscono l'autonomia, in generale e nel caso concreto, della valutazione dei fatti posti a base di contestazione disciplinare in sede giudiziale civile rispetto alla valutazione dei medesimi fatti in sede giudiziale penale, quali condotte integranti o meno fattispecie di reato; così come è pienamente operante, anche nel caso in esame, il principio generale secondo cui il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità; il giudicato di assoluzione (ovvero, per quanto qui interessa, il decreto di archiviazione, sebbene con presupposti ed effetti non del tutto coincidenti) non determina l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto, oggetto di giudicato, non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare (cfr. Cass. n. 30663/2023, n. 398/2023, n. 11948/2019, S.U. n. 14344/2015, n. 12134/2005). Tuttavia, la valutazione dei fatti oggetto di procedimento disciplinare come operata dal giudice penale non è irrilevante, posto che è assai differente il disvalore sociale e giuridico collegato alla detenzione di stupefacenti, anche pesanti, a fini di spaccio o per uso personale, e che la ricostruzione fattuale operata in sede penale, anche limitatamente alla fase delle indagini preliminari, è utilizzabile - quanto meno come prova atipica - da parte del giudice del lavoro (cfr. Cass. n. 26042/2023, n. 9507/2023). Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, con principi consolidati, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.; in proposito, la Suprema Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell'attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione; l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Orbene, per la Cassazione a tali principi risulta conforme la sentenza impugnata, che ha valutato la condotta extra-lavorativa del dipendente, in sede penale ritenuta non costituente reato, e quindi di disvalore sociale minore rispetto a condotta costituente reato, e in assenza di prova di danni all'immagine del datore di lavoro, non tale da incidere negativamente in via definitiva sullo svolgimento e proseguimento dell'attività lavorativa. Invero, la censura di incoerenza e irragionevolezza della motivazione della sentenza gravata rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si risolve, in realtà, in un dissenso rispetto al decreto di archiviazione, cui è appunto seguita, nel secondo grado di merito, la valutazione di insussistenza di giusta causa ancorata al ricordato esito del procedimento penale, ridimensionato rispetto all'originaria (e invero immutabile) contestazione disciplinare. Ne consegue il rigetto del ricorso.