Le rettifiche da transfer pricing non possono configurare il reato di dichiarazione infedele. Le stesse possono invece essere ricondotte a quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Ha così precisato la Guardia di Finanza rispondendo ad una serie di quesiti. A seguito delle modifiche apportate all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74/2000 ad opera del D.Lgs. n. 158/2015, lo stesso oggi prevede che il reato di dichiarazione infedele si configura quando, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, si indicano, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, se, congiuntamente: - l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 150.000; - l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al 10% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. Dato che la formulazione vigente della norma fa riferimento a “elementi fittizi inesistenti” e non più a “elementi passivi fittizi” e le rettifiche da transfer pricing hanno natura estimativa, l’effettuazione delle suddette rettifiche non può configurare il reato di dichiarazione infedele. Dette rettifiche possono però dare origine al reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. In merito poi alla previsione contenuta nell’articolo 16-quater del DL n. 119/2018, introdotto dalla legge di conversione n. 136/2018, la Guardia di Finanza ha precisato che l’accesso ai dati dell’anagrafe dei rapporti finanziaria potrà avvenire sia per gli stessi fini perseguiti dall’Agenzia delle entrate (analisi dei rischi e attività ispettiva nelle sue varie forme) sia per altri fini istituzionali del Corpo della Guardia di Finanza (tutela degli interessi comunitari, lotta al riciclaggio, contrasto alle frodi doganali e in materia di accise, ecc.).