Legittimo il sequestro sui beni aziendali anche in presenza di un concordato preventivo

Gli effetti del sequestro preventivo non vengono meno qualora sia stato perfezionato, in seno ad una procedura concorsuale, l'accordo tra l'indagato-contribuente e l'Amministrazione finanziaria. La transazione fiscale conclusa con l'Agenzia delle Entrate si configura certamente come un impegno ad adempiere, ma, di per sé, non elimina in radice il pericolo di una dispersione dei beni costituendo l'inadempimento una opzione non auspicabile, ma certamente possibile e, in ogni caso, produce effetti impeditivi solo con riguardo alla confisca. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18034 del 2 maggio 2019. IL FATTO Il Tribunale del riesame di Varese confermava la sussistenza dei presupposti legali (fumus commissi delicti e periculum in mora), in relazione al provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip limitatamente al sequestro finalizzato alla confisca diretta nei confronti di una società, annullando il sequestro preventivo per equivalente disposto nei confronti del legale rappresentante della società predetta, in quanto sottoposto ad indagini in relazione all'accertato omesso versamento di ritenute certificate per i periodi di imposta 2013/2016 per un ammontare di oltre 8 milioni di euro. Nel ricorso per cassazione, il legale rappresentante censura la decisione del giudice del riesame per avere affermato la sussistenza del periculum in mora; ai fini della legittimità del sequestro preventivo, si richiederebbe non soltanto un pericolo concreto ed attuale, ma anche che venga dimostrata, con ragionevole certezza, l'utilizzazione del bene per la commissione di ulteriori reati o per l'aggravamento o la prosecuzione di quello per cui si procede; ciò non potrebbe essere sostenuto nel caso di specie stante l'omologazione da parte del medesimo Tribunale del concordato preventivo e della relativa transazione fiscale ricomprendente l'intero debito tributario con inizio dei versamenti concordati a partire dal mese di novembre 2018; l'organo giudicante avrebbe errato nel ritenere non eliminato il rischio di dispersione dei beni in quanto la conservazione verrebbe garantita dalla figura pubblica del commissario giudiziale, incaricato normativamente del controllo della regolarità dell'esecuzione del piano concordatario, con conseguente impossibilità per la società di non onorare i pagamenti stabiliti in rateazione; la situazione non consentirebbe di sostenere la concretezza e l'attualità del periculum in mora, esistendo inoltre una adeguata liquidità sui conti societari e un patrimonio immobiliare e mobiliare il cui valore ammonterebbe a 62 milioni di euro; sottolinea il ricorrente che nessun pagamento previsto non era stato effettuato dalla società in quanto la prima rata doveva essere versata nel mese di novembre 2018; non corretto sarebbe stato anche il ritenere insufficienti gli elementi per prevedere il regolare pagamento del debito tributario, errando il giudice del riesame nell'accogliere la tesi del Gip secondo la quale la disponibilità dei beni si rileverebbe potenzialmente idonea ad aggravare le conseguenze dannose del reato, con necessità di impedire qualsiasi movimentazione di denaro, esecuzione di operazioni simulate e dispersione del patrimonio, garantendo il pagamento delle somme dovute all'erario. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione respinge il ricorso. In merito alla compatibilità tra procedure concorsuali, nel caso di specie concordato preventivo, e misura cautelare reale, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che gli effetti del sequestro preventivo vengano meno qualora sia stato perfezionato, in seno alle suddette procedure, un accordo tra l'indagato-contribuente e l'Amministrazione finanziaria; si dovrà piuttosto operare una rideterminazione del quantum sequestrato in una misura corrispondente alle somme versate all'erario, così da ovviare il rischio di una duplicazione della sanzione, considerata la natura sanzionatoria riconosciuta alla confisca e quindi al sequestro preventivo ad essa finalizzato. Qualora tale riduzione non fosse disposta, si realizzerebbe inoltre una violazione del principio secondo il quale il valore del bene oggetto dell'ablazione definitiva non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito mediante la commissione dell'illecito penale. Non sono mancate voci a sostegno di una prevalenza della funzione recuperatoria su quella sanzionatoria della confisca in materia tributaria (c.d. natura funzionale mista), essendo la stessa diretta al recupero dell'imposta evasa. Diversamente, non sarebbe comprensibile la ragione per la quale, prima in giurisprudenza e oggi normativamente in forza dell'art. 12-bis D.lgs. n. 74/2000, una volta soddisfatto il credito tributario, si rinuncerebbe alla ablazione definitiva. Segno evidente, questo, del fine precipuo della confisca in tale settore, ossia garantire la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di acquisire quanto non versato dal contribuente, compresi gli interessi maturati (mentre più discussa è l'inclusione delle sanzioni connesse, le quali sembrerebbero difficilmente riconducibili al profitto del reato stricto sensu). Orbene - proseguono gli Ermellini -, seppure non possa dubitarsi dell'assoluta autonomia del giudice penale nell'accertamento e nella valutazione degli elementi costitutivi del reato tributario, compreso dunque il superamento o meno della soglia di punibilità, nei casi in cui debba essere disposta la confisca non potrà prescindere dagli eventuali accordi raggiunti tra Amministrazione finanziaria e contribuente, essendo la suddetta misura strumentale al recupero del credito tributario nella misura in cui lo stesso sia stato quantificato al di fuori del procedimento penale mediante determinazioni concordate (precisandosi in merito l'indisponibilità del suddetto credito, la cui eventuale diminuzione rispetto al quantum iniziale potrà essere giustificata solo in difetto di elementi probatori a sostegno della pretesa erariale). In base a quanto disposto dall'art. 12-bis D.lgs. n. 74/2000, rappresentante ulteriore conferma della natura funzionalistico-riscossiva del sistema penal-tributario, la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza del prodromico sequestro, disponendo la operatività della stessa in caso di mancato effettivo versamento. Una precisa interpretazione della disposizione normativa è stata fornita dalla Cassazione (Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470). Si è sul punto chiarito, innanzitutto, che il termine "impegno" non sta ad indicare qualsiasi esternazione dell'intento di adempiere all'obbligo tributario da parte del contribuente, dipendendo l'istituto da scelte unilaterali dello stesso e risultando così in balia di più o meno risibili promesse. Preferibile si è quindi rivelata una lettura più rigida, ritenendo necessario un impegno assunto formalmente, come riscontrabile, ad esempio, nei casi di conciliazione giudiziale, transazione fiscale, o procedure di rateizzazione. Circa poi la "inoperatività" della confisca, si prospettavano due possibili interpretazioni differenti. Secondo una prima opzione, qualora l'imputato si fosse impegnato formalmente al versamento del dovuto all'erario, il giudice non avrebbe dovuto disporre la confisca in seguito alla condanna, dovendosi attendere l'eventuale successivo mancato versamento. Una conseguenza di tale posizione ermeneutica sarebbe stata l'esclusione di un sequestro preventivo successivo all'assunzione dell'impegno, ovvero la caducazione degli effetti di quello che già disposto in quanto, essendo lo stesso finalizzato alla confisca, ne sarebbe mancata la ragione giustificativa, non potendo l'ablazione definitiva essere disposta dal giudice. Ma ciò non soltanto cozzerebbe con la lettera della disposizione normativa, che include l'ipotesi di un sequestro in atto, ma consentirebbe la conservazione della disponibilità dei beni per il reo, con rischio di dispersione del patrimonio. Maggiormente sostenibile ad avviso della Cassazione nella sentenza in commento è invece la seconda opzione interpretativa, con applicabilità della confisca, la cui produzione di effetti verrebbe condizionata al mancato ottemperamento dell'impegno formalmente assunto, quindi ad un evento futuro ed incerto, ferma restando la possibilità di disporla anche successivamente al suo verificarsi. Ne discende inoltre la conservazione della legittimità del sequestro preventivo prodromico alla confisca, permanendo sino all'integrale pagamento del debito, almeno per un quantum corrispondente ai versamenti mancanti. L'interessato, dunque, può quindi domandare il dissequestro per la parte che dimostri di avere versato, ex art. 321, comma terzo, c.p.p., ovvero invocare l'applicazione dell'art. 85 disp. att. c.p.p. il quale consente che le cose sequestrate (nella specie, il denaro) possano essere restituite previa esecuzione di specifiche prescrizioni che, nel caso di specie, consistono nella destinazione a favore dell'erario a titolo di pagamento del debito. Analogamente qualora siano stati sequestrati beni mobili ed immobili, il contribuente-indagato potrebbe procedere versando all'erario la somma di valore corrispondente. Ne discende, pertanto, che, correttamente, il Tribunale del riesame aveva negato l'esistenza di un automatismo tra l'esistenza della procedura conservativa di carattere pubblicistico e l'assenza del periculum in mora, laddove si consideri che la transazione fiscale conclusa con l'Agenzia delle Entrate si configura certamente come un impegno ad adempiere, ma, di per sé, non elimina in radice il pericolo di una dispersione dei beni costituendo l'inadempimento una opzione non auspicabile, ma certamente possibile e, in ogni caso, produce effetti impeditivi, come previsto dall'art. 12-bis, D.lgs. n. 74 del 2000 solo con riguardo alla confisca; residua, ovviamente - senza che ciò pregiudichi rebus sic stantibus la sussistenza del periculum in mora - la possibilità per l'indagato, di domandare il dissequestro per la parte che dimostri di avere versato, ex art. 321, comma terzo, c.p.p., ovvero di invocare l'applicazione dell'art. 85 disp. att. c.p.p.

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La transazione fiscale conclusa con l'Agenzia delle Entrate si configura certamente come un impegno ad adempiere, ma, di per sé, non elimina in radice il pericolo di una dispersione dei beni costituendo l'inadempimento una opzione non auspicabile, ma certamente possibile

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