In tema di locazione di immobile adibito ad uso commerciale, il locatore può inserire una apposita clausola nel contratto che ponga a carico del conduttore il pagamento delle imposte locali. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17453 del 28 giugno 2019. IL FATTO Il caso trae origine da una sentenza con cui la Corte d'Appello di Ancona ha respinto il gravame proposto da una società avverso la decisione di primo grado che ne aveva rigettato la domanda di accertamento del vantato diritto alla restituzione degli importi corrisposti a M. Srl, a titolo di rimborso dell'Ici e dell'Imu da questa a sua volta versati all'Erario, giusta contratto del 18/12/2003 di locazione ad uso commerciale per la durata di anni 18 di un complesso immobiliare: importi asseritamente non dovuti stante la dedotta nullità della clausola secondo cui «Nel corso dell'intera durata del ... contratto: (i) Il conduttore si farà carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai beni locati ed al presente contratto tenendo conseguentemente manlevato il locatore relativamente agli stessi; (ii) il locatore sarà tenuto al pagamento delle tasse, imposte e oneri relativi al proprio reddito». Tale nullità era dedotta per essere detta clausola in realtà volta «a riversare l'onere tributario relativo all'ICI e all'IMU gravanti sull'immobile locato, su un soggetto diverso da quello passivo tenuto per legge a subire il relativo sacrificio patrimoniale, e quindi in chiaro contrasto con il principio, costituzionalmente sancito, di concorso alla spesa pubblica in ragione della (e non oltre la) propria capacità contributiva», nonché «con l'art. 9 legge n. 392 del 1978, che non indica in alcun modo, tra gli oneri accessori a carico del conduttore, ivi tassativamente elencati, anche le imposte patrimoniali relative ai beni locati». Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società, chiedendo se sia valida la clausola di un contratto di locazione che attribuisca al conduttore di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, tenendone conseguentemente manlevato il locatore. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso. Sul punto le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 6882 dell'8 marzo 2019 - pronunciata peraltro tra le stesse parti in fattispecie del tutto analoga - hanno già chiarito che: - oggetto della clausola in argomento sono non già le imposte dirette gravanti sulla locatrice bensì meramente quelle gravanti sull'immobile e inerenti allo stipulato contratto; - inoltre, trattandosi di contratto stipulato nel novembre del 2003, non viene in rilievo l'INVIM, istituita con d.P.R. n. 643 del 1972, (in particolare quella decennale d.P.R. n. 643 del 1972, ex art. 3, comma 1), il cui art. 27 prevedeva la nullità di «qualsiasi patto diretto a trasferire ad altri l'onere dell'imposta»; - è viceversa applicabile l'ICI, introdotta a decorrere dal 1993 (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 1), poi sostituita a decorrere dall'aprile 2012 dall'IMU (d.lgs. n. 23 del 2011), le cui relative discipline non contemplano invero norma analoga a quella di cui al sopra richiamato d.P.R. n. 643 del 1972, art. 27; - la questione del patto traslativo d'imposta non espressamente vietato da specifiche norme di legge rimane altresì estranea alla normativa comunitaria, attenendo alla mera disciplina interna. La sentenza ha quindi passato in rassegna i precedenti di Cass. 05/01/1985, n. 5 e Cass. Sez. U. 18/12/1985, n. 6445, evidenziando che: — il primo, nel considerare inammissibile il patto traslativo d'imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi «dei vantaggi e dei benefici della vita associata» sottraendo «la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione», ha ritenuto in termini generali «vietato e nullo (ai sensi dell'art. 1418 c.c., comma 1, e per contrasto con l'art. 53 Cost.)» qualunque patto «con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell'erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d'imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d'imposta diretta che di imposta indiretta»; — il secondo ha diversamente affermato che il patto traslativo d'imposta «è nullo per illiceità della causa, contraria all'ordine pubblico, solo quando esso comporti che effettivamente l'imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito»; ciò che si verifica «nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente», non anche, nell'ipotesi in cui «l'imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l'obbligazione di cui si stipula l'accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente», ma «riguarda ... una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il "prezzo" della prestazione negoziale». L'arresto di Cass. Sez. U. n. 6882 del 2019 ha quindi evidenziato che, già nel 1985, con la pronunzia da ultimo ricordata, le Sezioni Unite, se, da un lato, hanno mantenuto «fermo il discorso di fondo sulla portata dell'art. 53 Cost. e sulla sua attitudine a porsi come norma imperativa preclusiva di atti negoziali che ne comportino l'elusione», dall'altro, hanno nell'occasione evidenziato come sia la rivalsa a rendere invero «neutrale» la tassazione in testa al sostituto, «presentandosi come un credito del ... medesimo verso il contribuente pari alla somma di cui egli è debitore verso il fisco (e che ha già corrisposto)», concludendo quindi che (solo) «una pattuizione di esonero dalla rivalsa, se consentita, comporterebbe l'effetto di alterare immediatamente e direttamente il carico tributario perché il patrimonio del contribuente non verrebbe inciso, non verificandosi da parte sua quell'esborso verso il fisco che realizza il doveroso carico tributario e non presentandosi qui con effetto compensativo l'incremento tassabile che ne consegue, poiché tale ulteriore tassazione non vale a ripristinare il vuoto contributivo da cui è conseguito l'aumento di reddito, non essendo omologhe le situazioni in raffronto». Cass. Sez. U. n. 6445 del 1985, con specifico riferimento alla vicenda al suo esame, osservò quindi che «con il contratto di locazione ... le parti, sia pure con due distinte clausole contrattuali, hanno voluto determinare il canone locativo in due diverse componenti, rappresentate l'una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell'art. 4, e l'altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata (art. 7.2.(i))». Cass. Sez. U. n. 6882 del 2019 ha quindi rimarcato che il principio delineato da Cass. Sez. U. n. 6445 del 1985, condiviso dalla dottrina maggioritaria, è successivamente rimasto sostanzialmente incontrastato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 03/06/1991, n. 6232, con riferimento al contratto di mutuo; Cass. 25/03/1995, n. 3577, relativamente all'imposta sulla pubblicità; Cass. 27/11/1999, n. 13261, in tema di intestazione fiduciaria di azioni; Cass. 29/11/2004, n. 22369, in ordine a contratto di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione contemplante canone comprensivo anche degli oneri accessori; Cass. 18/11/2009, n. 24307, in tema di imposta sulla pubblicità; Cass. 25/2/2015, n. 3770, relativamente a contratto di mutuo; Cass. 08/02/2016, n. 2412, in ordine a rapporto concessorio inerente alla gestione dei parchimetri di Roma), essendosi solo affermata, in qualche pronunzia, in tema di imposte dirette, la nullità dell'accollo delle imposte dovute sul reddito. Alla luce delle esposte premesse, Cass. Sez. U. n. 6882 del 2019 ha quindi ritenuto — quanto alla vicenda al suo esame (ripetesi, del tutto analoga a quella in commento) — infondate le doglianze mosse dalla ricorrente e inidonee a revocare in dubbio la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985 alla quale ha piuttosto ritenuto doversi dare ulteriore conferma. Ha invero rilevato, tra l'altro, che: — la clausola contrattuale di cui all'art. 7.2 in argomento è stata nell'impugnata sentenza intesa come prevedente un'ulteriore voce o componente (la somma corrispondente a quella degli assolti oneri tributari) costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l'ammontare complessivo a tale titolo dovuto dalla conduttrice; — tale clausola risulta correttamente interpretata dalla Corte di merito, alla stregua dei principi posti a fondamento del suindicato consolidato orientamento, in particolare là dove tale giudice ha riguardato la clausola de qua alla stregua del complessivo tenore del contratto, sottolineando che tale pattuizione in realtà trae origine dalle «negoziazioni intercorse tra le parti, sfociate nell'operazione di sale and lease back (in cui si inserisce il rapporto di locazione per cui è causa)». Le Sezioni Unite hanno infine rimarcato che, «trattandosi di canone di locazione ab origine realmente pattuito, risulta nel caso ... non integrata la violazione del divieto posto all'art. 79 legge locaz., (anche) alla stregua dell'interpretazione offertane dalla recente pronunzia delle Sezioni Unite ove si è affermato essere insanabilmente nullo il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, a prescindere dall'avvenuta registrazione (v. Cass. Sez. U. 9/10/2017, n. 23601)». Tutto ciò premesso reputa il Collegio che, nella pressoché totale identità (oltre che delle parti) degli elementi fattuali considerati (quanto in particolare alle clausole contrattuali di cui si contesta la validità), e non ravvisandosi negli argomenti svolti a fondamento del ricorso ragioni che possano indurre a sollecitare un ripensamento della soluzione adottata dalle Sezioni Unite, tra l'altro come visto a sua volta richiamandosi ad un lontano precedente delle stesse Sezioni Unite del 1985, questa debba condurre al rigetto del ricorso, con la integrale conferma della sentenza impugnata. Anche questa, invero, salve diverse ma marginali sfumature argomentative, ha in sostanza posto a base della propria decisione una operazione di ermeneusi contrattuale in virtù della quale è giunta alla conclusione che «l'intera operazione commerciale» — «dove il conduttore - prima di assumere tale veste ha venduto il proprio immobile a chi ne sarebbe divenuto locatore», per mezzo di un successivo contratto la cui stipula era indicata come condizione essenziale per l'efficacia della vendita — «rientra nello schema del sale and lease back [e] ha lo scopo di finanziare il cedente conduttore e dove il canone di locazione non ha solo lo scopo di retribuire il godimento del bene ... ma anche quello di "retribuire" il finanziamento ottenuto», con la conseguenza che «la scelta di porre le tasse ed imposte gravanti sugli immobili a carico del conduttore è una delle componenti adottate per stabilire il canone con le funzioni di cui si è detto», di modo che la previsione in questione «non ha la finalità di liberare l'acquirente-locatore dai carichi erariali a suo carico, ma quella di determinare la retribuzione complessiva del finanziamento».