In tema di sanzioni disciplinari di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare, che è pertanto sufficiente sia redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e da indicare le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20284 depositata il 14 luglio 2023. Il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali - osservano gli Ermellini - deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (art. 3 della legge n. 604 del 1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino l’indicata fattispecie legale. Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quei doveri, cioè, che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono i doveri imposti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., e quelli derivanti dalle direttive aziendali (Cass. n. 1305 del 2000; n. 7819 del 2001; n. 12500 del 2003; n. 16291 del 2004; n. 6893 del 2018). L’esigenza di predisposizione di una normativa secondaria, con connesso onere di pubblicità, è stata affermata dalla Suprema Corte, ad esempio, per il caso in cui gli addebiti contestati consistano “nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato ed al grado di elasticità nell’applicazione”, richiedendosi che “l’ambito ed i limiti della loro rilevanza e gravità, ai fini disciplinari, (siano) previamente posti a conoscenza dei lavoratori, secondo le prescrizioni dell’art. 7 St. lav.” (Cass. n. 54 del 2017 ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima la sospensione di otto giorni irrogata ad un dipendente bancario, per la violazione di una circolare interna sulla gestione del credito e delle relative istruzioni operative, pur in mancanza dell’affissione del codice disciplinare; v. anche Cass. n. 22326 del 2013 secondo cui “deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali; in applicazione di detto principio, la S.C. ha ritenuto rilevante la mancata affissione del codice disciplinare, in fattispecie in cui il lavoratore era stato licenziato perché non si era attenuto alle regole operative fissate dalla banca per la valutazione del rischio di illiquidità)”. Orbene, venendo al caso di specie, la Corte di merito si è attenuta ai principi appena richiamati ed ha considerato non necessaria la pubblicità del codice disciplinare in relazione alla condotta contestata al dipendente ed esigibile “in ragione della stessa stipulazione ... del contratto di lavoro”; condotta consistita in un “grave inadempimento della prestazione lavorativa, rimproverabile al lavoratore a titolo di colpa per la negligenza e l’imperizia con cui aveva eseguito le mansioni di sua pertinenza”, dato “l’oggettivo divario tra il suo rendimento e le soglie produttive previste dal programma aziendale di produzione”, oggetto di accertamento non censurato col ricorso in appello. Inoltre, gli Ermellini ricordano che: - la preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve necessariamente riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, e i precedenti disciplinari che la integrano, solo quando la recidiva medesima, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva applicabile, rappresenti un elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già un mero criterio, quale precedente negativo della condotta, di determinazione della sanzione proporzionata da irrogare per l’infrazione disciplinare commessa; - il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati – ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati – ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati; - la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave.