Il contratto di lavoro subordinato è caratterizzato dalla sinallagmaticità ed impone alle parti coinvolte (datore di lavoro e lavoratore) uno scambio reciproco di prestazioni. II lavoratore, oltre ad eseguire l’obbligazione principale (la prestazione lavorativa), è tenuto ad ottemperare ad alcuni obblighi correlati, fra i quali può essere previsto il dovere di non concorrenza, articolazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 del Codice civile. Il datore di lavoro possiede gli strumenti normativi per estendere gli effetti di detto obbligo anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro? Il patto di non concorrenza, di cui all’art. 2125 del Codice civile, rappresenta la soluzione purché vengano rispettati determinati requisiti previsti dalla legge a tutela della posizione del lavoratore, a pena di nullità del patto stesso. Obblighi del prestatore di lavoro Per meglio comprendere la portata e l’ambito di applicazione dell’istituto del patto di non concorrenza, è utile ricordare che il prestatore di lavoro, al di là del dovere di esecuzione della prestazione lavorativa che costituisce l’obbligazione principale in favore del datore di lavoro, è sottoposto ad alcuni obblighi derivanti dalla stipulazione del contratto di lavoro subordinato. Diligenza L’art. 2104 comma 1 del Codice civile stabilisce come il prestatore di lavoro sia tenuto ad eseguire la prestazione lavorativa secondo il dovere di diligenza, che impone a questo lo svolgimento delle attività per mezzo di precisione, cautela e attenzione nell’interesse del processo produttivo dell’impresa. In questo senso, difatti, la prestazione di lavoro può considerarsi eseguita secondo il dovere di diligenza se non arreca alcun pregiudizio all’attività datoriale e, per queste argomentazioni, si può fare rientrare quest’obbligo nei più generali principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.) che regolano la totalità dei rapporti giuridici nel nostro ordinamento. Occorre però stabilire in quale misura il datore di lavoro sia tenuto ad esigere l’esecuzione della prestazione con la dovuta attenzione, precisione e scrupolosità; dottrina e giurisprudenza sono orientate a ritenere che, per le attività lavorative che non richiedono un elevato grado di professionalità, sia sufficiente la diligenza media, quella da sempre definita la diligenza “del buon padre di famiglia”. Per quanto riguarda invece l’esecuzione di lavori richiedenti un determinato grado di professionalità è richiesta la cosiddetta diligenza qualificata. Obbedienza Secondo la previsione del comma 2 dell’art. 2104 c.c., il lavoratore deve eseguire l’attività lavorativa secondo il dovere di obbedienza, attenendosi alle istruzioni e alle indicazioni dettate dal datore di lavoro o dal personale gerarchicamente superiore. L’obbligo di obbedienza, nell’ambito di un rapporto giuridico da cui derivano specifici diritti e doveri, è da ritenersi naturale conseguenza del riconoscimento in capo al datore di lavoro del cosiddetto potere direttivo, mediante il quale è legittimato ad impartire determinate disposizioni riferibili all’esecuzione dell’attività lavorativa (come avviene ad esempio in tema di sicurezza per l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale), ovvero alla disciplina del lavoro (ad esempio per mezzo di direttive inserite all’interno di un regolamento disciplinare). Il lavoratore che non ottempera all’obbligo di obbedienza durante l’esecuzione dell’attività lavorativa può essere sottoposto da parte dell’imprenditore al procedimento disciplinare di cui all’articolo 7 della l. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori). Fedeltà Ricollegandosi ai principi di correttezza e buona fede, l’obbligo di fedeltà è statuito all’art. 2105 Codice civile a tutela della competitività imprenditoriale del datore di lavoro. Il lavoratore è infatti obbligato a tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro senza adottare condotte pregiudizievoli al processo produttivo aziendale. Il dovere di fedeltà si esplica per mezzo di due obblighi di “non fare”: - obbligo di non concorrenza, consistente nel divieto di trattare affari per conto proprio o terzi in concorrenza al datore di lavoro; - obbligo di riservatezza, consistente nel divieto di divulgare informazioni, dati e atti relativi alle modalità di produzione dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro ovvero di utilizzare gli stessi dati in maniera tale da recare un danno economico all’imprenditore. Un chiaro esempio riguarda il lavoratore domestico, che è sottoposto al dovere di riservatezza circa tutto ciò che succede ovvero è attinente alla vita famigliare o della comunità durante l’intero rapporto di lavoro subordinato. Patto di non concorrenza I doveri a cui è sottoposto il lavoratore in forza del rapporto di lavoro subordinato si estinguono in concomitanza alla cessazione del rapporto stesso. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2125 c.c. è data facoltà al datore di lavoro di sottoporre il prestatore di lavoro all’obbligo di non concorrenza di cui all’art. 2105 c.c. anche dopo l’estinzione del rapporto mediante la stipulazione del cosiddetto patto di non concorrenza. Per mezzo di esso è possibile convenire la limitazione dello svolgimento dell’attività lavorativa da parte del lavoratore, in proprio o alle dipendenze di altri soggetti, in concorrenza al precedente datore di lavoro successivamente alla cessazione del rapporto in cambio del pagamento di un corrispettivo. Stipulazione, requisiti e casi di nullità L’art. 2125 del Codice civile non stabilisce un periodo determinato entro il quale sia possibile stipulare il patto di non concorrenza, ed è pertanto facoltà delle parti decidere se: - inserirlo come clausola contrattuale all’interno della lettera di assunzione; - stipularlo in corso di rapporto (anche durante il periodo di prova); - stipularlo successivamente alla cessazione del contratto di lavoro. Qualunque sia il periodo temporale della stipulazione, il patto di non concorrenze deve essere redatto in forma scritta a pena nullità. N.B. La conclusione del patto di non concorrenza durante lo svolgimento del rapporto di lavoro può configurare una rinuncia da parte del prestatore del lavoro, suscettibile di impugnazione ai sensi dell’art. 2113 Codice civile. Al fine di evitare tale rischio può risultare utile da parte del datore di lavoro stipulare il patto di non concorrenza in una delle cosiddette “sedi protette”, e più precisamente davanti alle organizzazioni sindacali, alle Commissioni di certificazione del rapporto di lavoro ovvero gli organi di conciliazione istituite presso le ITL, in modo tale da rendere inoppugnabile il patto. Il patto di non concorrenza deve contenere alcuni requisiti previsti dall’articolo 2125 Codice civile al fine di tutelare la posizione del prestatore di lavoro, determinati in maniera tale da poter consentire a questo, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un margine di attività non coperta dal patto che gli consenta di soddisfare le proprie esigenze e quelle della sua famiglia. A pena di nullità, all’interno del patto deve essere inserito: - il corrispettivo, che rappresenta una forma di “ristoro” per il sacrificio professionale sostenuto dal lavoratore, la cui entità e le modalità di erogazione sono stabilite liberamente dalle parti. Esso infatti può costituire in una somma di denaro, oppure nel godimento di uno o più beni. Tuttavia, deve rispettare i principi di congruità, avendo riguardo dei limiti posti dal patto alle capacità professionali e di guadagno del prestatore di lavoro. Qualora durante l’esecuzione del patto il corrispettivo risulta essere divenuto incongruo, il prestatore di lavoro può richiedere la risoluzione contrattuale per eccessiva onerosità della prestazione; - l’oggetto, costituito dall’insieme delle attività che il lavoratore è tenuto a non eseguire, per conto proprio o per conto terzi, in concorrenza al datore di lavoro. Pertanto, può riguardare qualsiasi mansione potenzialmente concorrenziale al datore di lavoro, ma deve consentire lo svolgimento di attività riferibili alla qualifica professionale del prestatore di lavoro per non inibire totalmente le sue potenzialità reddituali; - i limiti di luogo, stabilendo in maniera precisa e determinata le zone di territorio (comunali, provinciali, regionali, o addirittura nazionali) nelle quali il lavoratore è obbligato ad osservare il contenuto dell’oggetto, avendo soprattutto riguardo all’ambito di operatività a livello territoriale dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro; - i limiti di tempo, che non possono superare i cinque anni, se si tratta di dirigenti, ovvero a tre anni negli altri casi. Nel caso in cui la durata temporale del patto ecceda i limiti legali, ovvero nulla preveda, questi vengono ridotti nelle misure suindicate, non comportando la nullità del patto medesimo. Il patto di non concorrenza è comunque da considerarsi nullo: - per indeterminatezza dell’oggetto, da rinvenire in tutti quei patti ove è fatto divieto al lavoratore di esercitare qualunque tipologia di attività nel settore produttivo nel quale opera il datore di lavoro, ovvero di svolgere attività in qualsiasi settore commerciale; - qualora il corrispettivo risulti simbolico ovvero sproporzionato rispetto al sacrificio del prestatore di lavoro. Sono altresì considerate nulle per contrasto con norme imperative le clausole che prevedono la facoltà di recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, in quanto comportano una indeterminatezza del patto riferita ai suoi elementi costitutivi, con la conseguenza di recare un pregiudizio in capo al lavoratore nelle sue scelte lavorative. Poiché il patto in esame è configurabile quale contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, esso può essere modificato oppure estinto solo mediante accordo tra le parti secondo la disciplina ordinaria dei contratti.