Via libera all’esdebitazione in favore dell’imprenditore condannato per aver diffamato la banca, se il reato non è strumentale all’attività di impresa. La Cassazione (ordinanza n. 10080 del 10 aprile 2019) respinge il ricorso dell’istituto di credito, contro il decreto con il quale la Corte d’appello aveva accordato l’esdebitazione malgrado l’esistenza di una condanna per diffamazione proprio nei confronti della banca. Reato considerato ostativo dalla ricorrente, secondo quanto previsto dall’articolo 142 della legge fallimentare, perché correlato all’attività di impresa. Ma, ad avviso dei giudici, nella critica, espressa in un documento in occasione del rinnovo del Cda, si faceva riferimento ad un ricatto della banca per la mancata concessione di finanziamenti e al risarcimento chiesto all’istituto da un’altra ditta per frode nell’assegnazione degli incarichi. Nessuna delle accuse, ritenute infamanti, era dunque finalizzata ad agevolare o continuare l’attività di impresa. La Cassazione è d’accordo. E spiega che, alla luce dell’articolo 142 n. 6, il fallito persona fisica, può essere liberato dai debiti residui nei confronti dei debitori concorsuali a meno che non sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per bancarotta fraudolenta, per i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio «e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività di impresa». Fatta salva l’ipotesi di riabilitazione. Scopo della norma è quello di individuare le condizioni soggettive di merito valutando la condotta del fallito, anche prima, dell’apertura del concorso. Perché scatti l’ostacolo al beneficio non basta che il delitto sia stato commesso in occasione dell’attività di impresa ma deve essere a questa legato. Uno stretto collegamento «finalistico e funzionale» che, nello specifico, non c’è. Per i giudici una campagna denigratoria, simile a quella esaminata, avrebbe potuto essere svolta nei confronti della banca da chiunque e non solo da un imprenditore.